Macbeth

Felice operazione del Teatro di Roma, col tutto esaurito, ospitare uno dei più grandi registi della scena internazionale, il lituano Eimuntas Nekrosius, con tre capolavori assoluti: la celebre trilogia scespiriana Amleto, Otello, Macbeth. Ed è stata ancora una lezione di grandissimo teatro rivedere questi spettacoli ad anni di distanza, e scoprirvi ulteriori profondità. Come nel Macbeth, liberato dalle croste delle convenzioni e restituitoci attraverso simboli. Tronchi oscillanti come pendoli. Pietre rovesciate da vasche metalliche sospese. E poi cenere spruzzata, asce conficcate sopra un pezzo di legno o sulla schiena del fantasma sorridente del re assassinato. Immagini dense di rimandi: come gli specchi coperti da drappi poi svelati, a riflettere gli incubi della lunga notte che ha ucciso il sonno di Macbeth . È un flusso di figurazioni, frutto di un lavoro di smembramento e di dilatazione del testo per cercarvi gli strati più ancestrali. Quello di Macbeth è un mondo arcaico, contadino. Lo evidenziano i materiali scenici elementari, e lo sono le tre streghe. Giovani, dispettose, vitali, sempre in scena a giocare e a tendere trappole con un enorme pentolone dove ribollono i destini degli uomini. In una incessante sequenza di invenzioni di regia la scena finale è da brividi per quel senso di compassione – come un manto di infinita pietà – che suggella la rappresentazione. Sulle note del Miserere i personaggi si adagiano man mano per terra, mentre una luce accecante – il sole di un mondo migliore? – s’accende sugli spettatori. TRAGEDIA MODERNA È un approccio inedito, moderno, quello di misurarsi con la tragedia greca scegliendo il punto di vista del Coro e del Messaggero. Della traduzione di Edoardo Sanguineti i registi Virginio Liberti e Annalisa Bianco di Egumteatro – coadiuvati da quattro giovani attori, Andrea Capaldi, Lorenzo Gleijeses, Armando Iovino, Davide Pini Carenzi – hanno costruito Che tragedia!, una intensa partitura drammaturgica, che ha il suo punto di forza anzitutto nell’impianto scenografico. Su di esso s’innesta, poetica e potente, l’intensa recitazione degli interpreti che si avvia col lamento di Andromaca davanti al corpo- manichino di Ettore. In lunghe tuniche nere, catapultati da secoli lontani nel nostro tempo del quale indosseranno abiti moderni, gli attori giungono su una pedana lignea che, scoperchiata, rivelerà due vasche d’acqua e due teche trasparenti, con sopra piantata una vela e luminarie da festa popolare. È l’acqua del mare dove tuffarsi per annegare e riemergere, chiedendosi cos’è la saggezza?. È ancora il mare da attraversare armi in mano, e lunghe aste bianche, mentre si tramandano echi di violenze e di paure, di suppliche e di domande. Nel rimbalzare dei versi da una bocca all’altra, o declamati all’unisono come un unico corpo pulsante; nei monologhi, nelle parole sussurrate, gridate o declamate correndo, ci giunge l’eco di figure mitiche, che arriva fino all’oggi. E ci ferisce. Come ogni sofferenza umana. Alla Sala Uno di Roma per Le vie dei Festival.

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