Ma se la sono cercata quelli di Charlie Hebdo?

Accanto allo sdegno per il vile attentato, non pochi dei nostri lettori s’interrogano sulla provocazione, sull’offesa verso l’Islam contenuta nelle vignette della rivista satirica di Parigi. Cosa dire?
Charlie

Commentando un mio articolo su cittanuova.it (vedi Charlie Hebdo violenza e libertà), non pochi lettori si sono espressi – tutti in termini civilissimi – su una questione: «Perché dovremmo dire “Je suis Charlie” quando non condividiamo per nulla i contenuti e la forma delle vignette del giornale satirico parigino?». Anche altri giornali cattolici, Avvenire in primo luogo, hanno registrato analoghe reazioni dei lettori.

 

Scrive ad esempio Daniela Baudino: «Mi sento molto disorientata in questi giorni. Ripugno con tutta me stessa la violenza, il fanatismo. Chi usa la violenza per me sempre passa dalla parte del torto, marcio. (…) Ma c'è un ma e so che questo farà storcere il naso a molti. Sento in questi giorni parlare di “libertà”. Ma non so più che cosa è veramente la libertà. Fare e dire tutto ciò che voglio, anche quando so che quello che dico ferisce e indigna l'altro nella sua intimità, nella sua identità? Anche quando in nome della libertà di espressione ridicolizzo una cosa per cui l'altra persona è addirittura pronta a farsi sopprimere pur di non calpestarla? È questa la libertà? O è quella che finisce dove comincia quella dell'altro?».

 

Stamani, invece, con una mail Costanzo Donegana mi ha scritto: «Non hai fatto nessun commento critico sulla libertà di espressione. Con tutto il rispetto per le persone dei giornalisti uccisi, la loro “cultura” era violenta, incapace di dialogo, di costruire rapporti. Era una delle espressioni dell’Occidente che ha perso le radici (ricordiamo Giovanni Paolo II e Benedetto XVI). Si può fare della pornografia su Dio, sia quello cristiano o musulmano? È satira questa? Buon gusto? La lettera di Giacomo dice: “La lingua è un fuoco, è il mondo dell’iniquità, vive inserita nelle nostre membra e contamina tutto il corpo e incendia il corso della vita” (Gc 3, 6). Papa Francesco ha condannato il cattivo uso della lingua e ha detto che “anche le parole possono uccidere”. Per me quei giornalisti (…) non debbono essere chiamati martiri».

 

Conosco da decenni Charlie Hebdo e lo considero un giornale talvolta offensivo e non solo contro l’Islam. È un giornale dichiaratamente ateo, libertino, libertario e irresponsabile. Non ci si stupisca: dieci anni vissuti in Francia, a Parigi, mi hanno dato lo spessore della sacralità della libertà per i francesi, al punto da apparire quasi un modo per taluni di sostituire la fede in un Dio. La libertà per certa cultura è eletta ragione stessa di vita. Libertà, ovviamente, considerata in tutte le sue forme, da quella di stampa a quella di satira, fino a quella di vilipendio della religione. Un sentire peraltro comune a decine di milioni di persone in Europa.

 

L’individuo è alla base di queste libertà, vere o presunte che siano. L’individuo è considerato come soggetto di diritti inalienabili, finanche quello di criticare Dio. L’individuo non è la “persona”, concetto caro ai cristiani che autorevolissimi filosofi francesi, coloro che hanno dato vita al “personalismo”, hanno contribuito a definire meglio: la persona umana riunisce in sé elementi spirituali, materiali, corporei, religiosi e, ecco la novità, relazionali. La persona umana è fatta anche di relazioni, al punto che i nostri comportamenti debbono tenere conto dell’altro, sempre. Soggetto di diritti non sono solo io, ma anche gli altri. Tutto ciò si basa su una visione cristiana del mondo, ancorata sul Dio-Trinità che in sé è relazione. Questa è un’antropologia tipicamente cristiana che non credo entri sempre negli schemi mentali di Charlie Hebdo.

 

Detto questo, credo che, biblicamente, ci sia un tempo per solidarizzare e un tempo per criticare. Mentre il sangue versato è caldo, quel sangue è – cristianamente parlando – quello del Figlio dell’uomo, colui che s’è fatto carico di tutti i nostri peccati e delle nostre miserie. Nel momento della violenza non si può che condannarla con voce chiara e forte, senza tentennamenti. Questo lo ripetiamo con forza e decisione: la violenza terroristica è da condannare, punto e basta. È «crudeltà», come ha detto il papa pregando per le vittime e per i carnefici (perché si convertano).

 

Il momento dell’emozione non è inoltre il momento della ragione. Momento che prima o poi, però, arriva immancabilmente. Ed è su questo piano che bisognerà ragionare anche con chi la pensa come Charlie Hebdo. Ragione che dice: la società ha bisogno di regole, di leggi, che non sono uguali dappertutto, perché fondate su un mix indistricabile di valori propri a culture, credenze e fedi diversissime.

 

Ora, finché la massima parte della gente viveva a casa propria, i problemi che sorgevano nel confronto tra queste regole diverse tra una maggioranza schiacciante di indigeni e una piccola minoranza di immigrati, rimanevano risolvibili e controllabili. Con la globalizzazione e le migrazioni degli ultimi trent’anni ciò non è più possibile. Le culture si incontrano e si scontrano. E la convivenza non regge più senza che le regole della convivenza vengano fatte proprie da tutti.

 

Ma questa tensione si può vedere anche una chance per le nostre società: dobbiamo tenere conto di più dell’altro e dell’altrui cultura, anche nell’elaborazione delle nostre regole di convivenza, pur senza stravolgerle. Le integrazioni degli immigrati nella nostra Europa sono state e sono di diverso tipo, ma sono tutte basate sull’accettazione completa e univoca da parte dell’immigrato delle nostre tradizioni, seppur con stili e modi diversi. L’integrazione à la française afferma ad esempio che chiunque arriva in Francia può diventare in pochi anni cittadino francese, basta che dimostri di avere assimilato, se non addirittura sposato in toto, la cultura francese. Prendiamo l’esempio di Sarkozy e Carla Bruni: un uomo di origini ungheresi e una donna di origini italiane (di seconda generazione il primo, di prima generazione la seconda) sono saliti al vertice più alto della democrazia francese! E non è un caso che il discusso Houellebecq nel suo libro dal titolo Sottomissione ipotizzi un presidente musulmano.

 

Ora, con l’arrivo massiccio di immigrati, a milioni, quest’assimilazione non funziona più con tutti, e tanti giovani immigrati di seconda o terza generazione (come i tre attentatori di Parigi) si ritrovano senza radici e – complici la scarsa educazione, le vite familiari slabbrate, le degradanti condizioni di vita nelle banlieue, oltre che l’incontro con maestri del terrore – finiscono col cercare tali radici nelle forme più fanatiche e radicali della religione, o piuttosto della pseudo-religione. Con i risultati che stanno sotto gli occhi di tutti.

 

Torniamo a noi: credo che oggi in Europa vada fatto un serio esame di quella libertà di critica e di satira che arriva all’offesa profonda del modo di essere e di vivere di tanta gente. Credo che sarebbe più ragionevole rinunciare a certe prerogative di libertà personale non per censura o autocensura ma per affermare razionalmente che le relazioni anche scomode tra persone e tra gruppi sociali non possono essere né sottovalutate né tantomeno eliminate dalla convivenza civile. Ma ciò non limita in nulla, lo ripeto ancora, la fermissima condanna della violenza terroristica.

 

 

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