Ma perché il rock non muore mai?
Ha ormai quasi cinquant’anni. L’han dato per morto decine di volte, e fin dai tempi di Woodstock. E invece è ancora qui, nell’aurora del nuovo millennio, col suo carico di contraddizioni e di luoghi comuni, di speranze ribelliste e buonismi farisaici, di passione e nichilismo. Benedetto e maledetto rock. Incapace di estinguersi o di trascendere, ormai ingabbiato in codici stilistici consunti eppure, evidentemente, ancora capaci di comunicare emozioni, di attraversare universi generazionali, di raccontare chi siamo, come eravamo e quanto continuiamo a cambiare. Nonostante la semplicità della sua essenza, il rock è fenomeno complesso perché terribilmente multifunzionale e plurivalente. Espressione artistica, prodotto di mercato, fatto di costume, mezzo di comunicazione, fonte di divertimento: tutto insieme, e in perenne mutazione con l’anima del proprio tempo. Ed è proprio questa sua capacità di adattamento alle realtà sociali circostanti una delle ragioni primarie della sua longevità. Così continua a riprodursi come un organismo vivente, e a differenza delle infinite scuole stilistiche che l’hanno preceduto e seguito, resiste all’usura del tempo e al succedersi delle mode: rifiutando cocciutamente di entrare nell’asetticità cristallizzata di un genere d’accademia come potrebbero essere il barocco, l’operetta o il dixieland. Ma tutto ciò potrebbe anche voler dire che in questi ultimi cinquant’anni le cose non sono poi così cambiate, o almeno non ancora così tanto da rendere il rock qualcosa d’appartenente ad un’altra epoca. Perché la sua essenza – o il suo spirito, per usare un’espressione tanta cara ai suoi fruitori – è rimasto sostanzialmente identico a quello delle origini: un mix di energia, giovanilismo e ribellismo che consente ai propri consumatori di sentirsi orgogliosamente con- trapposti ad un sistema ritenuto odioso, pur facendone sostanzialmente parte. E questa è probabilmente l’altra ragione fondamentale di tanta durevolezza. Un’occhiata ai mercati basta a rendere ancor più tangibile quanto appena detto. I padri fondatori sono tutti presenti con carrettate di antologie che ne celebrano i fasti (qualcuno come i Rolling Stones e gli Who sono ancora in piena attività), mentre gli eroi della seconda generazione (Nirvana in primis) sono già oggetto di culto e di infinite imitazioni da parte della terza E la cosa sorprendente – ma neppur tanto, a conti fatti – è che tra gli album più elogiati e significativi di questo periodo ci siano opere dall’inconfondibile codice genetico rockettaro. Come il recente ritorno dei Foo Fighters di Dave Grohol già batterista dei Nirvana, l’eccellente, omonimo debutto degli Audioslave di Chris Cornell (un’esplosiva miscela di psichedelia e hard-rock), il ritorno dei System Of A Down Steal this album (tra punk e numetal con qualche parentesi melodica), il notevole Songs for the deaf dei Queens Of The Stone Age, o il nuovissimo Senza Peso degli italianissimi Marlene Kunz. Se a tutto questo aggiungiamo l’indiscutibile approccio rock di personaggi molto trendy pur stilisticamente lontani da quest’ambito, come Eminem o Missy Elliott, avremo un quadro sufficientemente eloquente della smagliante forma fisica di questo gattone cinquantenne: dalle sette vite e dalle mille risorse.