Ma patriarca in Cina

Nello Xinjiang cinese, nella capitale Ürümqi, incontro un imam che pare un confuciano, ma che aspira a portare la pace anche in quest’angolo conteso dello sconfinato territorio cinese
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Ürümqi, profondo ponente cinese. Accanto alla chiesa cattolica si erge una delle moschee più originali che abbia mai visto: pare un tempio buddhista, o piuttosto confuciano. L’architettura delle costruzioni disposte attorno a un cortile – la più antica, la moschea vera e propria, ha poco più di due secoli – è assolutamente non distinguibile da altri luoghi di culto delle varie religioni cinesi, se non fosse per la modestissima mezzaluna che si nota sul tetto, sullo sfondo di recentissimi grattacieli che sembrano far corona (o minacciare, dipende dai punti di vista) l’insieme del villaggio. Il luogo di culto appartiene in effetti alla denominazione musulmana più cinese che esista, quella degli hui, musulmani rimasti per secoli fedeli al Corano e al Profeta, ma anche alle leggi prima dell’impero e poi della repubblica cinesi.

Accanto alla moschea, c’è la scuola coranica e l’abitazione dell’imam riconosciuto da tutti, l’anziano Ma, settantaseienne, che parrebbe un Confucio reincarnato, anche nell’aspetto semplice, dimesso, dalla barbetta cilindrica piccola e ben curata. Un patriarca. Mi accoglie con grande cordialità, anche senza capire bene chi sono e cosa voglia. Si parla della sua famiglia, dei due figli e delle due figlie, della mia professione, della festa del Sacrificio di Abramo, e si sbocconcella la rituale treccia dolce della festa, assieme a pistacchi e mandorle. Uno dei suoi figli s’accomoda accanto a noi, giovane e attento, scruta ogni mio movimento. Quando gli chiedo un’intervista, me la concede subito, ma non dinanzi alla mia piccola telecamera: «Per questo deve chiedere il permesso al governo», mi spiega. È fermo nella sua decisione, anche se accetta di farsi riprendere a microfono spento.

«Sono 10 milioni i musulmani nella nostra regione dello Xinjiang – mi spiega –, la maggior parte nel sud, in particolare attorno a Khasgar, accanto al Pakistan. Ma anche qui a Ürümqi la comunità non è piccola, circa mezzo milione di persone, la metà di tradizione hui. Sono una decina le diverse tradizioni musulmane presenti nel Paese sostanzialmente parallele alle diverse etnie che lo popolano».

Mi interessano le relazione con gli altri gruppi etnici del Xinjiang che si riconoscono nell’Islam… «Le culture e le origini di questi gruppi sono diverse – mi risponde –, ma tutti crediamo nell’Islam, nel Profeta, nell’Unico Dio. È questo il solo collante. Siamo diversi ma ci rispettiamo e collaboriamo. Ci si rispetta nelle diversità, e quindi non c’è ragione per scatenare conflitti particolari. La pace, natura dell’Islam, ci unisce, e così anche le leggi della Cina che ci obbligano a considerarci tutti eguali, e quindi a evitare inutili discussioni su chi sia il migliore».

E i rapporti coi cristiani? «Certamente abbiamo molte differenze, sia religiose che culturali, ma conflitti evidenti non ci sono, e nemmeno sotterranei. Conosco ad esempio il vescovo cattolico; ci vogliamo sinceramente un gran bene. Pochi giorni fa abbiamo dato testimonianza comune dell’armonia che ci lega nel corso di un’affollata conferenza».

Lo sviluppo economico che anche qui si fa sentire, che influssi ha sulla fede dei musulmani e dei credenti in genere? «Certamente l’influsso è positivo – s’infervora l’imam –. Pensi solo al fatto che nella contea di Ürümqi ci sono ben 3 mila moschee. Lo sviluppo economico ci ha permesso di ristrutturarle, abbellirle, ingrandirle. E così tanta gente viene più volentieri a pregare. La stessa cosa penso valga per le altre religioni, per il buddhismo e il cristianesimo in particolare».

Si dice spesso che l’Islam porta al terrorismo, alla violenza e alla sopraffazione… «Rispondo semplicemente a quest’accusa sostenendo che tutte le religioni, e certamente anche l’Islam, sono contro ogni forma di violenza e in particolare contro il terrorismo. Nessuna religione è contro la vita, tanto meno l’Islam. I nostri comandamenti sono chiari a questo proposito: non si può uccidere e uccidersi, se non per motivi estremamente gravi. Il terrorismo usa i segni della religione, ma non è religione».

È un musulmano felice, imam Ma? «È il periodo migliore della vita dei musulmani in Cina, senza dubbio. La politica sta aiutando lo sviluppo della religione. Ad esempio, quest’anno 3200 musulmani dello Xinjiang hanno potuto recarsi alla Mecca, cosa impensabile solo alcuni anni addietro». Un desiderio? «Quello di potersi sviluppare come gruppi religiosi, anche di religioni diverse, e di vivere insieme nella libertà, in accodo con le leggi dello Stato. Un grande avvenire è dinanzi a noi».

Usciamo proprio quando decine di membri della sua comunità stanno avviandosi verso la moschea. L’imam ci concede di riprendere alcuni momenti dell’orazione comunitaria. Salutandomi, mi bacia e mi augura «un futuro di pace nella memoria del profeta Gesù Cristo». Scusate se è poco.

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