Ma dove sono finiti i ribelli?

È la domanda che ci si pone costatando come alla riconquista da parte dell’esercito siriano delle zone in mano all’opposizione corrisponda sempre la partenza di combattenti, con famiglie annesse, verso il Nord del Paese. Una zona d’ombra che potrebbe rivelarsi un incubo

Dopo la resa dei ribelli della Ghouta orientale, circa due mesi fa, e quella dei combattenti del Daesh dell’ex campo profughi di Yarmouk, la settimana scorsa, la capitale siriana è ora completamente nelle mani dei governativi: non accadeva dalla fine del 2011 e la posizione del governo Assad si consolida sempre di più. Grazie all’appoggio russo e iraniano, nel 2015 si è verificata la svolta che ha ridato forza all’esercito del presidente Assad e all’arcipelago di milizie che lo affiancano. Contemporaneamente, le truppe governative con il supporto russo, hanno occupato anche l’enclave ribelle che da anni si era insediata nella Siria centrale, in un territorio a cavallo fra le provincie di Homs e Hama.

Pertanto, i governativi controllano adesso circa il 65% del territorio del Paese, dove vive una popolazione valutata intorno a 18 milioni di persone. Sommando a questo numero i 5,5 milioni di siriani rifugiati nei Paesi vicini (soprattutto Turchia, Libano, Giordania e Iraq) o che sono emigrati altrove, emerge un fatto: nei territori fuori dal controllo governativo potrebbero trovarsi circa due o tre milioni di siriani, soprattutto civili del luogo. Ma accanto a loro, in queste regioni (che rappresentano il restante 35% del paese, la parte non controllata da Damasco) ci sono anche alcune decine di migliaia di combattenti ribelli, la maggior parte dei quali sono stati trasferiti qui, con le loro famiglie, dopo le sconfitte subite nelle zone via via occupate dai governativi.

Da questo punto di vista si potrebbe dire che la guerra, giunta all’ottavo anno, sembra volgere al termine con la vittoria della coalizione internazionale che appoggia il governo Assad: Russia e Iran in primo piano, senza sottovalutare l’aiuto diretto degli Hezbollah libanesi e neppure il sostegno esterno della Cina. Senonché si potrebbe anche affermare che questo non è affatto vero, anzi che il pericolo di un allargamento del conflitto sia aumentato dopo l’intensificarsi degli interventi turchi contro i curdi, per l’unilaterale schieramento americano a favore di sauditi e israeliani, con le sempre ambigue e opportunistiche posizioni europee, eccetera.

Dall’interno, un fatto che induce a temere per il futuro della pace è lo schieramento anti-Assad del Nord-Ovest, dove i turchi di Erdogan hanno di fatto creato una “provincia turca di Siria” a spese dei curdi, da Jisr al Shughur a Jarabulus, circa 300 Km quadrati a ridosso dell’ex confine occidentale turco-siriano. Ad Afrin le case dei curdi fuggiti davanti all’avanzata turca e filoturca sarebbero state assegnate a circa 45 mila jihadisti e loro familiari trasferiti a Nord dalle aree conquistate dai governativi nella Ghouta orientale. A Idlib si trovano soprattutto i qaedisti di al-Nusra e quelli di Hayat Tahrir al-Sham, questi ultimi provenienti dal Libano dopo la resa nell’Arsal (2017). Al Nord, a Jarabulus e al-Bab, sarebbero stati insediati i jihadisti di Jaysh al-Islam (incompatibili con i qaedisti di Idlib), in posizione strategica per la minacciata avanzata turca verso le zone curde di Manbij e Kobane, dove però attualmente la presenza militare americana frena le mire più volte sbandierate di Erdogan. In tutta quest’area, infine, oltre alla presenza di distaccamenti dell’esercito turco (uno tra i primi 10 del mondo), vi è la consistente forza armata filoturca del Fsa (Free Syrian Army), il cui nucleo portante sono i dissidenti politici dell’esercito siriano, quello di Assad, che hanno disertato nel 2011.

L’altra area-rifugio, quella in cui hanno fatto perdere le loro tracce i miliziani del Daesh in fuga da Yarmouk, si trova nella steppa desertica (badiya) fra Palmyra e Deir Ezzor, da qualche parte lungo la M20, l’unica strada che attraversa la zona: terra di beduini, allevatori di dromedari, pecore e capre. Le zone meridionali ribelli di Dar’a e lungo i confini israeliano e giordano restano per ora particolarmente intoccabili, per il rischio di un’escalation negli scontri armati fra iraniani e israeliani.

Resta infine un capitolo alquanto misterioso e inquietante: quello dei foreing-fighter accorsi nel 2014-2015 da oltre 100 Paesi del mondo ed entrati in Siria con la connivenza turca per ingrossare le fila del Daesh. Sarebbero stati almeno 40 mila all’inizio del 2016. Dopo le sconfitte subite dal Califfato a Mosul e Raqqa, sono iniziati i rientri: secondo un recente studio internazionale, quasi 6 mila militanti del Daesh sarebbero rientrati in qualche modo nei Paesi di provenienza (soprattutto Turchia e Arabia Saudita, ma anche in Europa). I rimanenti sono ancora in Siria e Iraq oppure sono stati trasferiti in paesi come Afghanistan, Yemen, Egitto (Sinai), Libia e chissà dove, probabilmente per sostenere attività terroristiche e addestrare affiliati locali.

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