Luzi, i suoi buoni novant’anni

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Come vive i suoi novant’anni Mario Luzi? Sempre da poeta, scommetto, perché è poeta e a volte grande; e li vive in un Paese in cui, come ha scritto di recente, la volgarità riempie adeguatamente ogni occorrenza del nostro presente ; cosa che vale purtroppo non solo per l’Italia, e che un poeta non può non avvertire, essendo la volgarità una polvere fine ben più dell’inquinamento grossolano di ignoranza e superficialità da cui discende attossicandoci quotidianamente; una polvere che ricopre l’anima proprio là dove la poesia scaturisce dalla propria necessità e le cui acque devono restare limpide. Carlo Betocchi, il grande poeta che andai a trovare a Firenze in una fredda sera smeraldina, s’inorgogliva parando di Luzi come del nostro Cavalcanti, di un poeta cioè dalla mente alta e fine, che la matrice ermetica aveva mosso e promosso all’uso di una parola penetrante, intimamente inquieta, decorosa e stilizzata pur nella sua asciutta declinazione feriale, sempre più aperta con gli anni e il succedersi evolutivo delle raccolte al dialogo, al domandare senza comodo di risposte facili, al dilemma che non lacera ma accresce la coscienza, a un meditare non introverso. In tutti i suoi momenti, e nei più alti con evidenza di fiamma, ho conosciuto Luzi continuatore e non epigono di una tradizione letteraria alta e però non solo formale, di un umanesimo cioè producente in sé l’analisi del proprio limite, e perciò la certezza della propria non supponente ragione; tradizione di cui in Italia, e non solo nella letteratura oggi sbandatissima, c’è un disperato bisogno, mentre trionfano (effimeramente) i suoi contrari, l’arrogante esibirsi e lo smarrito improvvisare. Luzi invece ha sempre poeticamente operato perché la parola si schiarisse e proprio nell’incontro tra il massimo possibile di scavata precisione e la più umile ammissione di limite, di oscurità non cercata ma inevitabile; di qui le sue plurime e insistite domande, quell’ascendere e discendere sui loro agganci non risolutivi ma persuadenti a proseguire giocandosi nel magma e su fondamenti invisibili (titoli di sue cruciali raccolte). Letteratura cioè senza intellettualismo letterario, senza falsa onnipotenza che si pretende salvezza, libertà illimitata, mentre invece il poeta, scriveva Luzi nel 1949 (Naturalezza del poeta), proprio nella sua determinazione trova la sua 1ibertà.(…) Se il mondo delle arti e del pensiero manca oggi di unità, è sprovvisto della facoltà di sintesi necessaria, certo possiamo accusare l’intellettualismo dell’epoca. L’unità è evidentemente nella natura e la poesia è fatta per riscoprirla. Per lui, scrisse acutamente Carlo Bo, ogni problema intellettuale è medesimamente spirituale, e il cristianesimo stesso, come Luzi mi disse in un’intervista, opera come salvezza nella direzione dell’accadimento, in modo tale che anche la poesia non può non essere – ma senza equivoci ideologici – militante. Dopo gli inizi quasi parnassiani rilevati da G. Contini, Luzi, costatando lo splendido fallimento di un suo padre culturale, Mallarmé, cioè della pretesa che l’assoluto della poesia sorpassi la vita, si muove sempre più decisamente verso la vita fedele alla vita. (…) inizialmente prevalse il traslato-simbolico del presente e della storia (…). Poi, non so come sia accaduto (…). probabilmente sono andato più avanti seguendo la strada iniziale; se tutto il vivente, tutto il manifestato è simbolo, ossia allusivo di una totalità, di una più grande e superiore sua stessa dimensione, che a noi rimane ancora oscura, parziale, allora tutto è metafora, tutta l’esperienza umana . Infatti la fedeltà alla vita porta all’unità simbolica della preghiera: Sia grazia essere qui, / Nel giusto della vita, / Nell’opera del mondo, / Sia così. A partire da Nel magma e fino ad oggi (l’ultima silloge è del 1999, la Sotto specie umana) la poesia si fa colloquio e dialogo: l’io si sdoppia e si moltiplica, in una reciprocità interlocutoria che comporta la totale rimozione di ogni diaframma tra la poesia e la storia (G. Debenedetti); ma proprio in ciò sta il cristianesimo peculiare e radicale di Luzi, nell’essere cristianesimo degli abissi e delle radici, delle metamorfosi e di tutto ciò che sfugge all’intelligenza possessiva mentre la nutre e la raffina. La conoscenza per ardore produce il frutto della maturità luminosa di un poeta che trova, negli anni più lontani dalla giovinezza biologica, il suo linguaggio più affinato, più leggero e flessibile, più discreto ed essenziale, come l’acqua purificata di un fiume che proceda inattesamente verso la propria sorgente, la propria origine. Viaggio che non si può realmente viaggiare senza una simpatia dolorosa e avventurosa con la vicenda del mondo: La malattia dell’uomo d’oggi, è del tempo di oggi, il poeta non può respingerla. Il poeta deve anch’esso soffrirla, non può che interpretarla, può misurare la febbre, può dare un nome alla sofferenza, ma non può opporre una sua mostruosa salute (…) alla malattia del mondo.(…) È la prima volta dopo secoli che la poesia non può essere concepita e scritta contro il mondo, ma dentro di esso. Può lasciar cadere l’armatura del suo antagonismo: in realtà essa non ha più controparte, ma è alla pari con tutte le altre attività e discipline nel crogiolo di ma non può opporre una sua mostruosa salute (…) alla malattia del mondo.(…) È la prima volta dopo secoli che la poesia non può essere concepita e scritta contro il mondo, ma dentro di esso. Può lasciar cadere l’armatura del suo antagonismo: in realtà essa non ha più controparte, ma è alla pari con tutte le altre attività e discipline nel crogiolo di questo

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