L’urlo di Bong.

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Bong fu arrestato un imprecisato giorno del 1987. Il reato contestatogli: coltivazione e uso personale di droga. Aveva 28 anni. Non potendosi pagare un avvocato, dovette ricorrere a un difensore d’ufficio, tra quelli che la gente ironicamente chiamava abogados de paamin (paladini della verità) perché passavano il tempo a convincere i clienti a dichiararsi colpevoli, piuttosto che a difenderli. Il risultato fu una condanna a 20 anni di carcere. Perché proprio io?, ho urlato dentro di me quando il giudice pronunciava la sentenza. La prima notte in cella, steso sul duro letto, ricordo di aver pianto a lungo. Avevo disonorato la mia famiglia, tanto che di lì a poco avrei causato a mio padre un infarto mortale. Da quella notte in poi, sono diventato soltanto un numero. Il dolore era insopportabile. Gridavo: Dio, perché mi hai lasciato cadere così in basso?. Abbiamo conosciuto Bong in occasione del grande convegno dei volontari del movimento dei Focolari che si è svolto lo scorso settembre a Budapest per commemorare il cinquantesimo della loro nascita. Egli è ormai un uomo libero, sposato da 12 anni. Con sua moglie Glenda conduce una vita semplice e laboriosa in un buon quartiere della capitale filippina. È capo-produzione di una piccola azienda di candele, avviata da una decina d’anni con un gruppo di ex-detenuti come lui. Ciò che guadagna è sufficiente per sostenere decorosamente la famiglia. Un sogno che mai avrebbe potuto nemmeno sperare di realizzare solo qualche anno fa, allorché, come lui racconta, la sua vita si è improvvisamente fermata il giorno in cui i cancelli della prigione si sono chiusi dietro le sue spalle. Bong trascorse otto anni in carcere. Quando ne uscì, a 36 anni, era un altro uomo. Ma la strada della risalita fu lunga, e val la pena di tentare di ripercorrerne insieme a lui le tappe salienti. Apprendiamo così che i prigionieri vivono ammassati in poco spazio, con pessime condizioni igieniche e con cibo scarso. Solo nel maggior carcere di Bilibid, a Montinlupo City nella Grande Manila (12 milioni di abitanti) se ne contano diecimila. Vi troviamo infinite storie di sopraffazione e abbandono, se non di colpevole ingiustizia, che prosperano nel silenzio tra le mura del carcere. Ciò che maggiormente sconvolge è che nel carcere numerosi sono i ragazzi, talvolta preadolescenti, condannati a scontare una pena in base alle gravità del reato commesso, senza tener conto dell’età. Condividono la stessa sorte dei boss della malavita, nel medesimo complesso carcerario che ospitava il braccio della morte sino al fatidico 8 giugno 2006, allorché il parlamento filippino votò, su sollecitazione della presidente Arroyo, un disegno di legge per l’abolizione della pena di morte, che è stata approvata nei mesi successivi. A quella data, ben 1200 erano i condannati in attesa dell’esecuzione della condanna capitale. Non a caso, sin dai primi anni Novanta, la provincia gesuitica filippina, sostenuta ed incoraggiata dalla chiesa locale, ha individuato nel servizio alle carceri un impegno pastorale di primaria importanza, certamente irto di difficoltà, ma con prospettive esaltanti. Molti laici impegnati, tra cui anche vari appartenenti ai Focolari, si sono aggiunti in quest’azione di recupero e promozione umana, oltre che di sostegno morale e spirituale. Ed è a questo punto che la vita sospesa di Bang Bautista, uno dei tanti reclusi del carcere di Manila, riprende lentamente vigore. Più che fermarsi, lui aveva voltato le spalle alla vita Ciò che veramente giganteggiava in lui era un odio furente contro tutto e contro tutti, che finiva col distruggerlo: Odiavo la mia famiglia distrutta a causa dei genitori che si erano separati; odiavo la mia dipendenza dalla droga; odiavo la povertà che mi aveva costretto ad abbandonare la scuola. Una notte, senza nessuno a cui chiedere aiuto, implora: Dio, aiutami almeno ora!. Dopo qualche tempo, un’università vicina al carcere dava la possibilità ai reclusi di seguire un corso di laurea. Bong fu tra i primi a superare l’esame di ammissione. Ero emozionato: studiare – dice – era il mio sogno. Forse Qualcuno mi aveva ascoltato?. In carcere, oltre agli studi, Bong si impegna nelle attività sociali e religiose, affiancando il cappellano. Conosce alcuni volontari dei Focolari, che visitavano regolarmente la prigione. C’era qualcosa di diverso in loro, erano così accoglienti e sempre sereni, contenti, direi. Da loro ho imparato l’arte di amare, che include anche il perdono per il male ricevuto, e insieme l’amore e la misericordia di Dio per il male fatto. Ho cominciato così anch’io a dare una mano ai compagni e ad essere cortese con le guardie, non per timore, ma per amore. Ho sperimentato in me una nuova voglia di vivere. Anche se il mio corpo era prigioniero, lo spirito era libero di sognare, di credere in un mondo nuovo, di costruirlo con piccoli atti di fraternità anche dentro il carcere. Bong, piano piano, acquista la fiducia dei suoi compagni e delle guardie, tanto che viene nominato vicesindaco del suo reparto. Dopo cinque anni, si laurea in Economia e Commercio. Poi, ottiene definitivamente la libertà. Tutto questo – prosegue – è successo 13 anni fa, e da allora ritorno regolarmente in carcere con altri volontari – sono infatti anch’io uno di loro – alcuni dei quali ex detenuti come me. Tanti in carcere vogliono conoscerci, sapere come mai ce l’abbiamo fatta. Abbiamo anche potuto incontrare alcuni condannati alla pena di morte. Ma Bong non si ferma qui. Mi sento – dice – un uomo fortunato. Ho una bella famiglia, un lavoro, degli amici, un grande ideale per cui vivere. Ma i carcerati? Avevo sperimentato sulla mia pelle cosa vuol dire vivere in attesa della libertà, e nello stesso averne paura per il dopo, l’angoscia di vederti rifiutato da una società che continua a chiuderti la porta in faccia. Volevo fare qualcosa per loro. Ma che cosa?. Manifesta intanto questo suo desiderio agli altri amici del movimento, e nasce l’idea di dare inizio ad una casa per gli ex detenuti, dove possano essere accolti ed aiutati a reinserirsi nella società: Era domenica, e quel giorno – prosegue Bong – le letture della messa riportavano l’episodio in cui Gesù chiedeva a Zaccheo di entrare da lui, nella casa di un pubblico peccatore. Ecco il messaggio: Gesù vuole accogliere proprio noi peccatori! Da qui il nome che decidiamo di dare alla nuova struttura: Casa di Zaccheo. Un amico ha già donato il terreno. È un piccolo inizio, ma chi ben comincia, dice il proverbio, è alla metà dell’opera. E Bong ed i suoi amici ne sono consapevoli. Come, anche, sanno che da piccoli semi nascono grandi alberi.

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