L’uomo che restò in Libia
«Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al governo pastorale del Vicariato Apostolico di Tripoli, in Libia, presentata da Sua Eccellenza Monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli, o.f.m.. Gli succede sua eccellenza monsignor George Bugeja, o.f.m., coadiutore del medesimo vicariato apostolico». Sull’Osservatore Romano una piccola rubrica, in basso a sinistra in prima pagina, ogni giorno dà le notizie fondamentali sulla vita del Vaticano. In Curia quel piccolo rettangolo è letto come primo articolo, e suscita spesso mal di pancia o esultanze. Ma, soprattutto, in quelle righe trasuda la santità di chi ha dato la vita per la sua Chiesa.
Così è di Giovanni Innocenzo Martinelli, che i nostri lettori hanno potuto conoscere in questi anni grazie alle frequenti telefonate con Città Nuova che ci svelavano il caos libico ma anche la straordinaria tempra di un uomo che aveva messo la paura in soffitta. Veneto di Camacici, era cresciuto in Libia al seguito del padre immigrato. Nel 1967 si è fatto francescano minore, avendo già incontrato la spiritualità dell’unità dei focolarini. Nel 1971 era tornato a Tripoli, e dal 1985 era diventato vicario apostolico di Tripoli, cioè vescovo. Da allora non ha mai voluto lasciare la Libia, in particolare nel 2011, anno dell’attacco di Sarkozy e Cameron e della morte di Gheddafi, così come nel 2015, quando si temeva che l’Isis conquistasse anche Tripoli. Non lo fermarono nemmeno menomazioni fisiche e malattie.
In ogni sua telefonata traspariva la tempra dell’uomo di Dio. Ad esempio il 17 febbraio 2015, all’indomani della partenza dell’ambasciatore italiano, quando così si era espresso: «Non ho nulla di particolare da dirti, siamo diventati orfani dell’ambasciatore partito… Siamo qui perché Gesù ci vuole qui. Sono al servizio di questo popolo, non sono qui per chissà quale potere… La comunità cristiana esiste ancora, siamo tranquilli, abbiamo appena celebrato la messa, Dio è con noi, perché dobbiamo temere… Le previsioni sono molto difficili da fare, anzi è meglio non farne, perché troppe volte abbiamo fatto ipotesi che poi non si sono realizzate. Meglio vivere giorno dopo giorno, anzi momento dopo momento. Nel momento presente c’è tutto. In quel momento incontro Gesù, incontro i fratelli, amo questo popolo… Non abbiamo avuto minacce dirette, stiamo a vedere come si svilupperanno le cose, forse ci taglieranno la testa, ma io gliela darò su un piatto, perché sono qui per morire per la mia gente».
Nel 2011, quando spiravano venti di guerra, quando Sarkozy e Cameron spingevano per intervenire militarmente in Libia Martinelli mi aveva detto che se ciò fosse accaduto la Libia avrebbe rischiato di esplodere nelle sue divisioni tribali e politiche. Bisognava prevedere il dopo-Gheddafi. Ma purtroppo tutti gli europei sembravano sicuri che la democrazia elettiva avrebbe contagiato positivamente il Paese… «La prudenza – mi disse quel 17 febbraio 2015 – sarebbe stata utile, allora come ora. La diplomazia internazionale dovrebbe fare la sua parte per rimettere assieme i pezzi della Libia. Non si debbono imporre visioni politiche che non appartengono a questa gente».