L’uomo di una sola bugia
«Leggo Salgari per salvarmi l’anima». Di quale salvezza “laica” sarebbe portatore il narratore che, nell’era postrisorgimentale, ha praticamente inventato il genere avventuroso italiano? L’autore della battuta citata, l’agguerrito salgarologo Felice Pozzo, si riferiva al papà di Sandokan e del Corsaro Nero come ad un correttivo al grigiore di un’esistenza trascorsa dietro lo sportello di ufficio pubblico coi relativi danni arrecati allo spirito, alla psiche, al fegato.
In effetti Salgari, con i suoi romanzi improntati a valori come il coraggio, la lealtà, l’amicizia anche tra razze diverse, con i suoi eroi spesso perdenti ma mai rassegnati, col suo incantato stupore davanti a mondi inesplorati, contribuisce a preservare nell’intimo del lettore non occasionale una zona “vergine”, quasi una sorta di approdo per chi, tra fatiche, amarezze e sconfitte, cerchi incentivi ad affrontare le imprese spesso poco eroiche che ci riserva la quotidianità.
Non saprei dire quanti scrittori possano ammettere di aver mentito una sola volta ai propri lettori. Ma di sicuro Salgari è stato uno di questi. Uomo di una sola bugia (sosteneva di essersi diplomato capitano di lungo corso e di aver visitato di persona i luoghi esotici descritti), ha scontato questo “peccato d’origine” con la condanna ad attingere senza sosta dalle fonti coeve i materiali e le suggestioni da fondere poi al fuoco della sua immaginazione, per rendere credibili gli scenari dei suoi racconti. Una bugia, sì, ma motivo di gioia per generazioni di lettori “viaggiatori della fantasia”, diretti verso un altrove mai del tutto raggiunto, ma proprio per questo più affascinante.
Da tempo è in atto la valorizzazione di questo certosino della penna che – con i suoi ottanta e più romanzi e qualche centinaio di racconti – ha creato un suo mondo poetico e ha saputo esprimerlo con linguaggio efficace. Non si contano, ormai, i convegni, le mostre, le pièces teatrali di argomento salgariano, le riedizioni annotate dei romanzi, i saggi che indagano aspetti poco esplorati dello scrittore (tra i quali il suo rapporto col melodramma). Non manca neppure chi, come Paco Ignacio Taibo II, ricicla i suoi personaggi più amati, dandone una interpretazione forse discutibile, ma comunque indice della fortuna di Salgari anche all’estero.
Mancava invece, proprio nella città che gli aveva dato i natali nel 1862, un omaggio tangibile alla creatività dello scrittore. Verona, infatti, non è soltanto la città di Romeo e Giulietta o di Cangrande della Scala, è anche la città di Emilio Salgari.
Ora quel vuoto è stato colmato. Per iniziativa dell’associazione “Fantàsia” il 16 ottobre scorso, davanti alla Biblioteca Civica di via Cappello 43 che ospita una consistente sezione salgariana, è stata posizionata una statua bronzea del romanziere, opera dello scultore Sergio Pasetto. Salgari vi è ritratto in spolverino e bombetta, mentre passeggia per le strade della sua Verona (e al tempo stesso scavalca l’isola di Mompracem); porta la mano sinistra al cappello per non lasciarselo rubare dal vento ma anche in segno di saluto, e quale redattore della Nuova Arena, sulle cui pagine prese vita il personaggio di Sandokan, ne ha una copia del 1885 sotto il braccio destro. L’aspetto mite e il sorriso bonario sotto i baffi non lasciano immaginare le “tempeste” della natura e dell’animo umano da lui descritte in tanti appassionanti romanzi.