L’uomo di fuoco
Era un solitario, l’uomo di fuoco. La Bibbia ce lo presenta in scarne, indimenticabili pagine: sulla cima del monte Carmelo disteso a terra con la faccia fra le ginocchia; mentre si abbevera al torrente Cherit, dove i corvi lo nutrono con pane e carne; nascosto in una caverna nel deserto del Sinai. Sorse Elia profeta, simile al fuoco; la sua parola bruciava come fiaccola (Sir 48,1). La sua vita fu avvolta nel segno del fuoco. Era fuoco quello che bruciava nelle sue viscere e lo faceva ardere di zelo per il Signore. Dalla cima del monte sul quale se ne stava appartato, scese fuoco per divorare cinquanta e poi ancora cinquanta soldati che erano venuti per condurlo dal re. Fuoco venuto dal cielo bruciò il suo olocausto per provare la grandezza del Dio d’Israele di fronte agli esterrefatti quattrocentocinquanta profeti di Baal. E infine un carro di fuoco e cavalli di fuoco lo rapirono, mentre il suo discepolo raccoglieva a terra il suo mantello, e lo vedeva scomparire in un turbine nell’immensità del cielo. Elia, uomo di fuoco. Ma capace di una grande tenerezza. Come quando si corica sul corpo inerme del figlioletto della vedova che lo ospitava, e lo risuscita. Come quando attende in disparte mentre il discepolo Eliseo festeggia con un banchetto l’addio con gli amici, prima di lasciarli e seguire l’uomo di Dio. Come quando, sul monte Oreb, si copre il volto col mantello mentre Dio gli si presenta, non in un vento impetuoso, non in un fuoco che divora, non in un terremoto, ma in un lieve venticello. Elia, solitario, forse per indole, forse perché era rimasto solo in un paese che aveva voltato le spalle alla verità. Un paese nel quale il potere politico voleva sbarazzarsi di quell’unico odioso individuo che non si piegava al suo volere: Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita, confida a Dio. Il re lo chiama apertamente nemico, lo apostrofa come rovina d’Israele; s’indispettisce alla vista di quell’uomo assurdo, che lo coglie continuamente in fallo e lo rimprovera apertamente per la sua disonestà e i suoi crimini. Peggio ancora, la regina nutre per lui un vero e proprio odio. Lo vuole morto. Tutti si sono piegati ai suoi voleri, tutti adulano il suo potere, eccetto Elia, l’uomo peloso. Centinaia di veggenti esaltano il nuovo culto fenicio che ha soppiantato quello del Dio d’Israele, ma lui li ridicolizza e poi li stermina. La regina è furibonda. Il re asseconda il suo odio feroce. A Elia, impaurito, non resta che la fuga, nascondersi sui monti, nelle caverne. Lo coglie la stanchezza, lo sfinimento, fino a che sussurra: Ora basta, Signore! Prendi la mia vita . Ma poi si riprende, mangia un po’ di cibo, dorme, e continua a nascondersi. Ma quando gli eventi politici lo richiedono, ecco che riappare di nuovo, lui, l’uomo di fuoco, l’uomo vestito di perizoma di cuoio e di un mantello. Non si tira mai indietro. Elia, personaggio che a volte pare eccentrico, che chiama Eliseo a essere suo discepolo, senza dire una parola, ma solo toccandolo col suo svolazzante mantello. A volte è quasi indisponente, tanto è conscio della grandezza del compito che gli è stato affidato: quando il discepolo gli chiede in eredità i due terzi del suo spirito, risponde: chiedi proprio tanto, amico! Egli è totalmente distante dall’opinione pubblica del suo tempo, completamente politically incorrect, eppure inserito in pieno nelle vicende spigolose della sua epoca. Fieramente uomo, del tutto genuino, tutto originale, perché tutto di Dio. Per questo Gesù di Nazareth, come riporta il vangelo di Luca, amava rapportarsi spesso, nelle parole e nei gesti, all’ardente profeta vissuto più di ottocento anni prima di lui; per questo egli lo vuole accanto a sé e Mosè, nel misterioso evento successo sul monte Tabor. Ma anche altre tradizioni e correnti religiose, dall’Induismo, alla Quabbalah, al Buddhismo, all’Islam, presentano uomini di Dio che nelle opere e nello spirito assomigliano al grande profeta d’Israele. È il caso dell’indù Manu o dell’alter-ego islamico di Elia, Al Khidr, che, pur senza essere nominato, in una stupenda ed enigmatica pagina del Corano, invita Mosè a seguirlo senza domandare nulla: alla fine gli dimostrerà, con una serie di fatti, quanto sia fallace il giudizio degli uomini in confronto alla giustizia di Dio. Tutto questo ci presenta un libro uscito da poco, composto da vari autori, Elia e Al Khidr. L’archetipo del maestro invisibile ( Ed. Medusa); ma anche altri libri recenti ripropongono l’interesse per Elia, come Elia l’uomo di fuoco, di Olivier Belleil (Ed. San Paolo). Si presenta così Elia come modello di maestro interiore. Ma Elia è altrettanto stupefacente in quanto figura culturale e politica. Come i grandi profeti venuti prima e dopo di lui, come i grandi filosofi, è un personaggio raro. Egli dimostra che la verità sta raramente nel mezzo, come a volte ci piacerebbe credere. Che la verità solo in casi rarissimi sta nel cinquanta per cento: perché abita al di là di noi, la sua dimora è in Dio. E allora c’è il caso di un paese in cui quasi tutti sono nel torto e lui, solo, il peloso Elia, è dal lato della ragione. È avvenuto nei tempi lontanissimi in cui la regina Gezabele e il re Acab regnavano su Israele. Elia non ha avuto il timore di tirarsi in disparte e sfidare il potere politico e religioso, a costo di rischiare la vita, di nascondersi e passare per pazzo. È successo tanto tempo fa, ma la storia, a volte, si ripete con sorprendenti analogie. Noi viviamo in una società che ama il pareggio. Una società che si nutre di talk-show, dove fa spettacolo lo scontro di opinioni. In cui un’opinione deve, per definizione, valere quanto l’altra e si può imporre solo esteticamente, per l’abilità verbale o per l’avvenenza di chi la propone. Nella società del pareggio, non c’è posto per la verità: forse perché è troppo difficile da raggiungere, è meglio asserire che ci sono cento, mille verità, tutte equivalenti. In questo modo, stanchi dei talk-show, che portano a svalutare la parola, si inventano i reality-show, che hanno la sola pretesa di soddisfare l’immediata curiosità e la voglia di sentirsi protagonisti, se non altro perché si può decidere, votando, del destino di Tizio o di Caia. Elia invece usava la parola, e la sua parola era come fiaccola. I profeti non avevano altra arma che la parola, la semplice e vulnerabile parola, solo a volte supportata dal miracolo. Una parola che aveva l’unica garanzia di non essere una loro opinione, ma di essere stata udita presso Dio. Cosa non facile da dimostrare, quindi. E questo era spesso uno dei loro drammi. Ma non si sono arresi. Hanno creduto alla verità. Per questo i profeti sono di così grande attualità, anche se ai nostri giorni sono rari, forse come mai sono stati. Se è stimolante leggere le loro vicende e le loro parole, pare pressoché impossibile imitarli nelle loro imprese pubbliche. Ma rimane l’esempio di Elia. Almeno d’un fatto della sua vita. Quando sulla cima del monte Carmelo, se ne stava là, con la testa fra le ginocchia. A far cosa? Non lo sapremo mai. O chissà… forse lui stava ad ascoltare, al di là della tambureggiante marcia delle opinioni – già potente al suo tempo – quella voce che, come lieve venticello, parlava al suo cuore. E gli diceva cosa era vero e cosa era falso, e come agire di conseguenza.