L’uomo del rigore
Non sono le solite celebrazioni che un governo fa di se stesso o che imbastisce l’opposizione – con scopi critici – dopo un lasso di tempo che spinge fisiologicamente a compiere bilanci. Il primo anno del governo Monti coincide con l’esplodere del malessere sociale (è di mercoledì un’ondata di manifestazioni su scala europea), specchio di una crisi che perdura e di cui aumenta la consapevolezza diffusa, non perché si diffonde lo studio delle tabelle di macroeconomia, bensì perché l’impoverimento cresce.
La disoccupazione galoppante, la perdita di potere d’acquisto dei redditi e il calo dei consumi, le imprese che chiudono a migliaia, il dato negativo del pil che registra implacabile una recessione ancora senza prospettive di superamento, sono gli argomenti usati (e urlati) da coloro che interpretato come un sopruso alla democrazia la resa di Silvio Berlusconi, il più votato dagli italiani, e l’insediamentodi Mario Monti, un anno fa, al suo posto. È tutto vero, naturalmente e drammaticamente. E infatti oramai è diffusa la voglia di elezioni e non è detto che – complici le elezioni regionali – non si arrivi ad una scadenza anticipata, seppur di poco, delle politiche.
Il desolante quadro economico viene imputato alla politica del rigore e all’Europa che lo impone e i due termini si fondono nella figura del presidente del Consiglio, massimo europeista e massimo tutore delle politiche del rigore. Così, il suo gradimento presso l’opinione pubblica pur restando “più alto di quello dei partiti che sostengono il governo”, come sottolinea lo stesso presidente (unica nota autocelebrativa in tanta sobrietà), scende; e anche le ipotesi di conferma a palazzo Chigi si allontanano.
Eppure, questo governo ha fatto rivivere agli italiani emozioni dimenticate, legate a sentimenti di orgoglio nazionale e al ritorno di moda dell’onestà e della fatica del lavoro che produce. Possibile che tutto finisca a scontri di piazza e guerriglia urbana? Difficile negare che sotto il profilo dell’equità il governo abbia deluso. La necessità di mettere al centro i conti pubblici, con l’obiettivo del pareggio di bilancio, divenuto nel frattempo prescrizione costituzionale, si è risolta in un costante accrescersi del peso fiscale, mentre sul fronte dei tagli alla spesa gli interventi sono stati meno significativi. Il saldo dell’operazione è che ancora una volta agli italiani è giunto un messaggio: i conti non quadrano. Per farli quadrare non vi è che un modo efficace: la contribuzione dei cittadini. E quali cittadini? Quelli più numerosi, anche se più poveri. Se invece si volesse intervenire sul fronte del contenimento della spesa, allora bisognerebbe intaccare la protezione sociale: letti di ospedale, ore di insegnamento, disabilità, pensioni… Il tutto, mentre la magistratura mette in luce quotidianamente casi di corruzione e sperpero del denaro pubblico, proveniente, cioè, dalle stesse tasche degli stessi cittadini. E senza aprire il capitolo “crescita e sviluppo”, che ha prodotto una serie di buone intenzioni prive di investimenti. Si tratta di ambiti di azione (o di in-azione…) dove si sono messi in luce, per così dire, i vari ministri, via via entrati in familiarità con i cittadini. Che concludere, quindi? Che il primo governo d’Italia tutto fatto da tecnici ha fallito?
Provare a rispondere alle critiche punto su punto è una tipica attività da talk show e non interessa compierla qui; ognuno ha degli argomenti che lo possono aiutare a farsi un’opinione – possibilmente non individualistica – dell’operato di un anno di governo Monti. Quello che si può dire è che non è possibile capire questo governo se si tralasciano due elementi non accessori, ma che anzi ne costituiscono l’identità: l’emergenza e la “strana maggioranza” parlamentare. Senza tornare al clima e alle angosce del novembre di un anno fa, nulla più si spiega: l’Italia era a un passo dal dichiarare fallimento, l’effetto domino sulla zona euro dietro l’angolo. Uno scenario realisticamente apocalittico. La ragione sociale del governo Monti, quindi, fu e resta l’emergenza. Ma anche un governo di emergenza, come regola democratica vuole, deve essere retto dalla maggioranza parlamentare e quella che regge il governo Monti è una maggioranza singolare, che mette assieme le maggiori forze politiche, quelle che hanno vinto le elezioni del 2008 e quelle che le hanno perse, lasciando all’opposizione i rispettivi alleati, Lega e Idv. Un governo di impegno nazionale, come lo ha definito il presidente. L'impegno c’è stato, indiscutibilmente. Ma durante il corso dell’anno i veti incrociati si sono fatti sentire e l’azione di governo ne ha risentito (liberalizzazioni, anti-corruzione, costi della politica, tanto per ricordare qualche provvedimento).
Forse i cittadini si aspettavano un di più di autorità dal presidente Monti, ma l’altro elemento – l’emergenza – ha continuato a condizionare pesantemente il suo operato, impedendo di rovesciare il tavolo. Ciononostante, oggi il Paese è un altro. Nonostante tutto, ha recuperato speranza perché ha recuperato credibilità: oggi sappiamo che possiamo farcela. Perciò, sperando di non essere troppo audaci, anche le manifestazioni di piazza possono essere viste come un sintomo di una ritrovata normalità. Che vuol dire anche un richiamo al ritorno della politica.