L’uomo del reato non è quello della pena

A proposito della Riforma penitenziaria, in attesa dell’approvazione finale, che qualcuno accusa di essere solo una norma svuota-carceri. Ma lo Stato è legittimato a privare il reo della libertà, mai della dignità e della speranza

Mentre si susseguono colloqui e incontri a vari livelli per dare un Governo al Paese, fra le tante questioni sospese ha acquistato particolare evidenza la riforma penitenziaria, altrimenti nota come Riforma Orlando, dal nome del Ministro della Giustizia, a cui si deve la nomina della Commissione di studio. Lo schema del decreto legislativo (Atto del Governo n. 501), approvato dal Consiglio dei Ministri, è attualmente in attesa del parere (non vincolante) della Commissione Giustizia, la cui formazione seguirà tuttavia i tempi con i quali si darà vita al nuovo Governo.

La contrarietà espressa da alcune forze politiche rispetto ai contenuti del decreto di attuazione della legge delega n.103 del 2017, di portata ben più ampia per l’intero sistema giustizia, può essere sintetizzata nella invocata garanzia di una maggiore sicurezza per i cittadini, assicurata piuttosto dalla certezza della pena. Ma obiettivi e risultati da raggiungere non possono assumere il loro contenuto sulla base di “cartelli elettorali”, né questi ultimi possono esaurire temi che investono l’umanità dell’uomo, perché questo è il problema legato alla pena detentiva.

Ne erano consapevoli i nostri Padri costituenti, nel momento in cui all’art. 27 Cost., 3° comma, hanno disposto che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. È il focus, a cui già dal 1975 l’ordinamento penitenziario ha inteso rispondere, ma che in realtà ha dato nel tempo segni di necessari adeguamenti e integrazioni. Ultimi, quelli oggetto della riforma Orlando, che dinanzi al sovraffollamento delle carceri ha scelto, fra l’altro, di potenziare l’accesso alle misure alternative alla detenzione, innalzando il limite di pena per accedervi a quattro anni, e dettando prescrizioni orientate a condotte riparatorie. Novità sono introdotte in tema di detenzione domiciliare, semilibertà; si include tra le misure la liberazione condizionale.

Tutto positivo? Forse è doveroso riflettere sul rilievo della Corte Europea dei Diritti dell’uomo che, proprio al fine di promuovere ed estendere il ricorso alla liberazione condizionale, ritiene peraltro necessario «creare nella comunità migliori condizioni di sostegno e di assistenza al delinquente nonché di controllo di quest’ultimo». Il suo reinserimento comporterebbe inoltre idonee garanzie di “sicurezza e protezione” per la collettività. Sempre nell’ottica della individualizzazione del trattamento rieducativo, l’ulteriore obiettivo della riforma è superare sbarramenti e preclusioni che non dipendano dalla condotta dell’interessato. Si intendono perseguire misure atte a potenziare opportunità di lavoro, si opera la valorizzazione del volontariato anche esterno alle mura carcerarie, il miglioramento della vita in carcere nel rispetto dei bisogni delle donne detenute e a favore dell’integrazione degli stranieri reclusi.

Si può dunque semplicisticamente parlare di provvedimento “svuotacarceri”? Certo, la riforma intende dare una “risposta strutturale alla questione del sovraffollamento carcerario” (così la Relazione), ma non si può tacere il tentativo di assicurare anche nel trattamento penitenziario “il rispetto e la dignità della persona”. Questo è forse il nodo centrale: quella dignità inviolabile, in nome della quale ogni commento anche in politica dovrebbe trovare nel rispetto per ogni altro uomo contenuto e misura. È vero, al contempo, che se la popolazione carceraria risulta di oltre 58.000 detenuti, a fronte di una capienza di poco più di 50.600 posti, non possiamo neanche limitarci a una questione di numeri. La Corte Europea dei Diritti dell’uomo, sempre nella sentenza dell’8 gennaio 2013 con cui ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione per il trattamento nella detenzione di Torreggiani e altri, non solo richiama lo Stato a un sistema penitenziario che rispetti la dignità del detenuto, ma lo esorta a una riduzione del ricorso alla custodia cautelare in carcere, dicendosi «colpita dal fatto che il 40% circa dei detenuti nelle carceri italiane siano persone sottoposte a custodia cautelare in attesa di giudizio»!

Non numeri, ma persone, e tra queste carcerati senza condanna e condannati senza giustizia. Individualizzare un trattamento vuol dire anche conoscere e “incontrare” il volto dell’altro che si nasconde, ma vive, dietro ogni norma che a lui si rivolge, con un comando o un divieto.

Uno “sguardo” sull’uomo, che anche a me è capitato di incontrare in chi, condannato all’ergastolo come esponente della criminalità organizzata, mi son ritrovata a valutare nel suo percorso di studi universitari, per scoprire che lo studio intrapreso era servito a prendere coscienza anche del danno causato. A prova conclusa, smesso il “ruolo docente”, dall’ascolto di quel “tu” davanti a me apprendevo che “l’uomo del reato non è quello della pena”.

Per anni ho insegnato la finalità rieducativa della pena, tra quelle mura e dentro quei cancelli comprendevo che un cammino è possibile anzitutto per ritrovare se stessi, oltre che nell’obiettivo di un reinserimento sociale. Ma occorre non fermare il tempo al delitto o all’errore commesso, piuttosto, avere il coraggio di credere che un’aurora può esserci per chiunque nel riscatto della propria dignità. E questo tutti ci interpella.

Glauco Giostra, che ha presieduto la Commissione di studio sulla riforma penitenziaria, ha così concluso un suo intervento: «Lo Stato è legittimato a privare il reo della libertà, mai della dignità e della speranza».

 

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