L’uomo che sussurrava ai pezzi di legno
Dino Risi lo chiamava l’Orologiaio per la precisione, quasi maniacale, con cui si calava in ogni personaggio da interpretare. E proprio questa precisione gli consentiva di affrontare con assoluta serietà professionale qualsiasi ruolo. Per assurdo, grottesco o paradossale che fosse. Quando Luigi Comencini stava ancora cercando il suo Geppetto televisivo, confidò a Orazio Costa le sue perplessità per la scelta dell’attore che avrebbe dovuto interpretarlo. Costa, non ebbe dubbi. Prendi Nino Manfredi gli disse. È l’unico che può parlare con un pezzo di legno. Nato a Castro dei Volsci, nel Frusinate, il 22 marzo 1921, dopo essersi laureato in giurisprudenza per far contenti mamma e papà, Saturnino (questo il suo vero nome) cominciò a frequentare i corsi dell’Accademia. Tanto scrupoloso e diligente che già nel 1947 calcava il palcoscenico del Piccolo di Roma, per passare subito dopo alla compagnia di Maltagliati- Gassman, quindi al Piccolo Teatro di Milano. Senso della fedeltà e della gratitudine, nostalgia per l’ambiente in cui si era formato, lo riportarono ben presto a Roma, ancora una volta al Piccolo, dove ritrovò il vecchio maestro Orazio Costa, che Nino considerò sempre il suo Pigmalione. Il teatro, il doppiaggio, la radio, la rivista, gli sceneggiati televisivi, gli show del sabato sera, il cinema della grande commedia all’italiana anni ’60 e ’70, il teatro musicale di Garinei e Giovannini con l’indimenticabile Rugantino, la pubblicità (il suo Più lo mandi giù e più ti tira su è rimasto nella memoria di tutti gli italiani): instancabile e inesauribile, in oltre mezzo secolo di carriera Nino Manfredi ha attraversato l’intera galassia della recitazione, diventando uno degli attori più amati dal pubblico grazie a una simpatia dirompente, a una verve esplosiva e a una vena di autoironia che gli conferiva una carica di umanità e di familiarità difficilmente riscontrabile in altri comici. In circa centodieci film (il primo nel 1949: Torna a Napoli di Domenico Gambino) ha affinato e messo a punto il ritratto dell’italiano medio, di estrazione popolare, timido e fiducioso, onesto, attaccato alla famiglia, capace di affrontare anche le situazioni più difficili con una carica di buona volontà e di cauto ottimismo. Indimenticabile interprete di film come C’eravamo tanto amati e Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola, Straziami ma di baci saziami, Il gaucho e Operazione San Gennaro di Dino Risi, A cavallo della tigre di Luigi Comencini, Pane e cioccolata di Franco Brusati, Nell’anno del Signore, In nome del Papa re e Secondo Ponzio Pilato di Luigi Magni, Anni ruggenti di Luigi Zampa, Girolimoni, il mostro di Roma di Damiano Damiani, Café Express di Nanni Loy; memorabile Geppetto nel Pinocchio di Comencini, autore di due gioielli da lui scritti, diretti e interpretati, L’avventura di un soldato e Per grazia ricevuta, modelli di originalità e singolarità espressiva. Lo scorso anno, poche settimane dopo quell’emorragia cerebrale i cui postumi lo hanno portato alla morte, la Mostra del Cinema di Venezia gli aveva tributato un omaggio con la proiezione di La fine di un mistero diretto da Miguel Hermoso, vincitore del Festival di Mosca, nel quale interpreta il poeta spagnolo Federico Garcia Lorca. Dopo Sordi e Tognazzi, Gassman e Mastroianni, con lui se ne va l’ultimo moschettiere della commedia all’italiana, genere doc e stagione irripetibile che aveva saputo interpretare il costume nazionale con sferzante ironia, che non lascia eredi e che in un deserto di talenti trova il perché della crisi che da tempo attanaglia il nostro cinema. Come Buñuel aveva vissuto il rapporto con la fede in un continuo stato di conflittualità. Soltanto negli ultimi tempi, provato dalla malattia e dalla sofferenza, era tornato a riflettere sul significato della vita e a interrogarsi sul destino dell’uomo. Un nodo sciolto pubblicamente nell’ultimo saluto ad Alberto Sordi, quando, accarezzando la bara dell’amico e collega, mormorò: Ciao Albè, se rivedemo lassù.