L’uomo che cercava un tesoro
Nel leggere Tusitala, il narratore (ed. Ponte alle Grazie) che Roberto Mussapi ha dedicato alla figura di Robert Louis Stevenson, sono stato riafferrato dal mito del tesoro, lontano, conquistabile a prezzo di un lungo viaggio per mare che tanti anni or sono m’aveva affascinato fino a trattenere il fiato alle avventure di Jim Hawkins, il giovane protagonista de L’isola del tesoro: quel tesoro che, disputato a Silver e agli altri pirati dell’Hispaniola, diventa premio a un ragazzo che sa credere nelle tracce sulla mappa e sa ascoltare, che agisce dopo essere stato immobile, raccolto, nel buio. Fedele alle rivelanti pulsazioni, per molti altri impercettibili, della vita. Per un poeta come Mussapi, che ha splendidamente tradotto anche diverse raccolte poetiche di Stevenson, non ci sono dubbi: l’autore di Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, La freccia nera, Il ragazzo rapito, è un grande che va comparato a Melville, Conrad, Dickens, al miglior Dumas e al miglior Hugo. Più che una biografia tradizionale, Tusitala indaga l’enigma di colui che narra, il mistero della voce: è come un susseguirsi di sequenze filmiche che ci restituiscono l’anima di Stevenson, il che suppone una immedesimazione e una lunga frequentazione con lo scrittore scozzese. Quando e in che modo è avvenuto il suo incontro con Stevenson, e cosa ha scoperto in lui sì da farne uno dei suoi autori preferiti e quasi un compagno di viaggio? A sei anni imparavo, come tutti i bambini, a leggere e scrivere. Tra i molti libri che i miei genitori mi regalavano, come allora usava, e tra i classici ridotti per l’infanzia e magnificamente illustrati, subito esclusi quelli di genere sentimentale, che mi deprimevano: Senza famiglia, Cuore, e provai entusiasmo per quelli di avventura di mare: Moby Dick, Capitani coraggiosi, e sopra tutti L’isola del tesoro. Da allora non mi separai più da Stevenson. Che cosa mi ha colpito di più? L’idea che a un ragazzino capitasse l’occasione di trovare un tesoro, su un’isola lontana, ed egli senza esitare partisse. La vita mi offriva, da piccolo, il senso del tesoro e dell’avventura, di ciò che è sepolto lontano ma esiste e noi dobbiamo a tutti i costi trovare. Un tesoro finalmente trovato nei mari del Sud. Lì Stevenson ritrova la salute ma trova anche sé stesso, la fonte della sua vocazione all’avventura… Sarebbe una sorta di Ulisse che finalmente approda alla sua Itaca, ma a differenza dell’eroe del mito, non ha più bisogno di allontanarsene? Vede, rispondendo alla prima domanda, senza saperlo, le offrivo già una risposta a questa. Diciamo che lei mi ha fatto una domanda così centrata che ha già in sé la risposta. L’isola del tesoro è un’odissea il cui ritorno è compiuto, definitivo, assoluto, preulissico, potremmo dire. Stevenson narratore di miti, simbolo del narratore supremo che spinge la sua arte fino all’eroismo. Parlerebbe allo stesso modo anche di altri autori? No, a mio parere non è necessario amare lo scrittore in virtù dei suoi meriti letterari. Accade che qualcosa nella sua opera tocchi la tua vita e indagando tu scopra che abitavi anche nella sua. Ma non è prevedibile né programmabile. O ti innamori, o niente. Di Stevenson lei sottolinea l’eccezionale capacità di ascolto, che gli permetteva di captare realtà che sfuggono ai più, da tradurre poi in storie meravigliose. Questa dote non è forse tipica di ogni autentico narratore? È un dono di ogni grande scrittore, ma soprattutto dei poeti. L’ascolto non è una realtà puramente fisica, ma spirituale e fisica nello stesso tempo. È una modalità antropologica, sottintende una visione del mondo. Dove qualcuno, magari inudito nel tempo quotidiano, sta respirando. Meraviglia e stupore sono atteggiamenti propri del bambino e anche dell’uomo davanti al creato e nel suo rapporto con Dio. A suo avviso Stevenson può definirsi un contemplativo? Non credo. Contemplativo mi sembra un aggettivo debole per uno Stevenson, uno scrittore, un poeta di razza, che afferra la realtà visionariamente e la traduce in un’altra visione. Il contemplativo non ha nulla di quel talento, sta lì a guardare e interrogarsi, mentre l’altro ha già svelato e fatto meraviglia. L’esistenza di Stevenson è trascorsa sempre sotto la spada di Damocle della malattia. Eppure all’esterno era il narratore che incantava, fonte di gioia per chi l’ascoltava: Tusitala, appunto, come l’avevano ribattezzato gli abitanti di Samoa, l’isola in cui era andato a curarsi i polmoni malati… Stevenson era malato di tisi fin da bambino, viveva quindi nella malattia e nel timore della morte. Ma la morte non gli era familiare, non vi fu alcun lutto nella sua infanzia e gioventù. Non solo: furono età circondate da persone che lo amavano. In ogni caso già da bambino Robert imparò ad affrontare la malattia, da guerriero, anche se, a quell’età, con la spada di legno. La lotta tra bene e male è ben presente nella produzione di uno come lui, che indagava l’interiorità dell’uomo, anche se in genere nei suoi aspetti più negativi. Quale apporto, secondo lei, ha dato nell’illuminare il mistero dell’esistenza? A noi di Shakespeare restano immediatamente impressi Amleto e tutto il marcio e il sangue di Danimarca, oppure Otello, o la morte tragica di Romeo e Giulietta, o le streghe di Macbeth. Ma mentre rappresentava quelle storie, Shakespeare scriveva anche meravigliose commedie come Molto rumore per nulla, Così è se vi pare, e fondeva tutto nella Tempesta. Analogamente riguardo a Stevenson, il più shakespeariano di tutti i romanzieri di ogni tempo, perché il più immediato e naturale, noi ci soffermiamo su Jekyll e Hyde, o il Master di Ballantrae, meno sulla felicità volatile dell’Isola del tesoro o dei racconti magici della Polinesia. Stevenson in tal senso è totale, come Shakespeare. ROBERTO MUSSAPI, nato a Cuneo nel 1952, è poeta e drammaturgo, autore di saggi e di traduzioni da autori classici e contemporanei, collaboratore in trasmissioni radiofoniche. Tra i più recenti volumi ricordiamo per il teatro La grotta azzurra (Jaca Book, 1999) e per la poesia Accanto al fiume oscuro (Edizioni della Meridiana, 2005) e La stoffa dell’ombra e delle cose (Mondadori, 2007).Di Stevenson, ha tradotto raccolte poetiche per Studio Tesi (1986) e Mondadori (1997), nonché per Feltrinelli (Il mio letto è una nave, 1997)