L’uomo che cercava un tesoro

Nella Polinesia di Robert Louis Stevenson. Fortuna di un narratore di miti, le cui opere – sempre ristampate – continuano ad affascinare il “bambino” che è in noi

Upolu, nell’Oceano Pacifico occidentale, è la seconda per grandezza e la più popolata tra le isole Samoa, formata da un imponente vulcano basaltico che sale dal fondo marino. Qui visse dal 1890 fino alla morte nel 1894, riverito dagli indigeni che lo avevano ribattezzato Tusitala (“narratore di storie”), il grande Robert Louis Stevenson. E qui fu sepolto insieme alla moglie Fanny Van de Grift, su quel monte Vaea che sovrasta il villaggio di Vailima dove egli abitò con la famiglia e scrisse gli ultimi racconti. Meta oggi di pellegrinaggi, il suo monumento funebre reca l’epitaffio da lui stesso dettato: «Egli riposa qui, dove desiderava riposare./ Dal mare è tornato a casa il marinaio./ Dalle colline è tornato il cacciatore». Quanto alla dimora dello scrittore scozzese, accoglie una fondazione e un museo in suo onore.

Pensare a Stevenson è sentirci riafferrare – come scrive Roberto Mussapi – dal «mito del tesoro, lontano, conquistabile a prezzo di un lungo viaggio per mare», che da ragazzi ci ha affascinati fino a trattenere il fiato alle avventure di Jim Hawkins, il giovane protagonista de L’isola de tesoro: quel tesoro che, disputato a Silver e agli altri pirati dell’Hispaniola, diventa «premio a un ragazzo che sa credere nelle tracce sulla mappa e sa ascoltare, che agisce dopo essere stato immobile, raccolto, nel buio. Fedele alle rivelanti pulsazioni, per molti altri impercettibili, della vita».

Per un poeta come Mussapi, che ha splendidamente tradotto anche diverse raccolte poetiche di Stevenson, non ci sono dubbi: l’autore di Edimburgo è un grande che «va comparato a Melville, Conrad, Dickens, al miglior Dumas e al miglior Hugo», in quanto dotato, come ogni vero scrittore e poeta, di una eccezionale capacità di ascolto che gli permetteva di captare visionariamente realtà che traduceva poi in altre visioni: quelle narrate in romanzi come Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde o Il signore di Ballantrae, dove indaga il mistero del bene e del male presenti nell’interiorità dell’uomo, o nei magici Racconti dei mari del Sud, dove prevale lo stupore davanti al primitivo e ingenuo mondo polinesiano non ancora guastato dalla civiltà.

Compagno di viaggio di tanti che attraverso di lui hanno scoperto il piacere della lettura, Stevenson stesso cercava un tesoro. Un tesoro finalmente trovato in Polinesia, un luogo così lontano dalle sue arie natie dove finalmente recuperò la salute, lui che fin da bambino era vissuto sotto la spada di Damocle della tisi, ma anche un luogo dove trovò sé stesso, la fonte della sua vocazione all’avventura. Quasi un altro Ulisse finalmente approdato alla sua Itaca, ma – a differenza dell’eroe omerico – senza più bisogno di allontanarsene.

La fortuna di questo narratore di miti non è mai tramontata, come dimostrano le riedizioni recenti delle sue opere poetiche e dei suoi romanzi anche meno noti. Ultime, quelle de Il principe Otto e Il terrorista, pubblicati rispettivamente da Nottetempo e da Mattioli 1885.

Unico romanzo di Stevenson a dare tanto rilievo alle figure femminili, Il principe Otto, apparso dopo lunga gestazione nel 1885, due anni dopo L’isola del tesoro, si distacca nettamente sia dalle avventure piratesche, sia dai racconti ambientati nei Mari del Sud e sia dalle narrazioni storiche di guerriglie tra clan scozzesi. Per la prima ed ultima volta in vita sua, lo scrittore ci incanta con una storia d’amore, quella tra il principe del titolo e la sua sposa Seraphina: quasi una fiaba, ambientata nel Settecento in una piccola corte tedesca, che però si complica per gli intrighi del primo ministro e della sua amante, fino a causare la caduta del principato. Ma non si tratta qui solo dell’amore tra un principe elegante, svogliato e poco convinto del suo ruolo e una principessa troppo giovane e ardente: in una prosa poetica che ha messo alla prova la bravura del traduttore Masilino d’Amico, Stevenson ha affrontato in questo romanzo anche altri temi non secondari, come la natura del potere, la rinuncia, la fedeltà.

Ispirato invece all’ondata di attentati che colpì l’Europa di fine Ottocento, Il terrorista Zero del secondo titolo, nel quale eccelle ancora una volta la capacità dello scrittore di costruire suspense, è ritagliato sulla personalità di O’Donovan Rossa, una delle figure più in vista del movimento nazionalista irlandese. L’inafferrabile e misterioso protagonista, nel quale agisce quel lato oscuro dell’uomo che ha sempre intrigato Stevenson, non può non evocare eventi ed angosce dei nostri tempi. Suspense sì, ma con leggerezza. Scrive infatti il curatore Livio Crescenzi nella Introduzione: «Stevenson riesce a trasformare una storia gotica di terrorismo in una sorta di farsa in cui i terroristi diventano dei clown, e dove si ripristinano i valori dell’amicizia, della famiglia, e quindi della comunità».

Insomma, per il figlio di un ingegnere specializzato nella costruzione di fari come lui, nessuna notte poteva essere troppo oscura: egli sapeva che anche nelle circostanze più tragiche e oscure, la vita riserva sempre un raggio di luce a indicare una direzione.

 

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