L’universo pop di Hofesh Shechter
Quasi un marchio di fabbrica lo stile di Hofesh Shechter, ormai inconfondibile, da quando il suo lavoro più celebre Political Mother – quasi un concerto rock – lo lanciò sulla scena internazionale, nel 2010. Energica, dai ritmi tribali, percussivi, con esplosioni di frenesia cinetica alternata a improvvisi e brevi momenti di stasi. Quella del coreografo israeliano-londinese è una danza sempre trascinante, per quel tratto istintivo, pulsante, viscerale, che scorre nei movimenti a raffica, ondulanti e a scatti dei danzatori, con le gambe dinoccolate, le mani sfarfallanti, le braccia alzate come a invocare, supplicare o arrendersi, e i corpi ingobbiti sagomati nell’illuminazione potente di fari che penetra dall’alto fendendo la persistente foschia. Il tutto sostenuto da una partitura musicale elettronica, martellante e ripetitiva con lievi variazioni, composta dallo stesso coreografo.
Così è anche nel nuovo lavoro Contemporary Dance 2.0 (al festival Torinodanza) originariamente creato per il Göteborgs Operans Danskompani nel 2019, e completamente ripensato per la Hofesh Shechter Company – Shechter II di giovani danzatori in formazione. Il clima dello spettacolo è da discoteca, dove, all’euforia generale, subentrano momenti di calma, e, al ritmo incalzante, richiami alla musica hip-hop, folk, e al jazz. Dei cartelli alzati con scritto Pop, Con sentimento, Mother, La fine, indicano il succedersi delle 4 parti danzate, scandite dai decibel reboanti della musica, alternata a un suono ovattato e a improvvisi silenzi. Scorre adrenalina pura tra i caroselli di gruppo e quelli individuali, tra i segni comportamentali di sobbalzi, strisciamenti a terra, corse in tondo, disgregazioni e ricomposizioni continue dei danzatori dai colorati costumi casual. Non poteva non entrare, nel riallestimento dello spettacolo, il sentore della brutale realtà del nostro presente e il voler celebrare la vita, il bisogno di fratellanza e di solidarietà contro lo sfaldamento e l’orrore. Sembra dirci anche questo l’inneggiare gestuale o gli abbracci mancati, il continuo marciare e girare sul posto suggerendo una comunità affiatata e confinata, e l’irrompere improvviso della musica di Bach. Più espressamente lo dice, verso il finale, quel cartello con il simbolo “Make love not war”, che diventa manifesto di denuncia della guerra, mentre l’affermazione della libertà dell’essere umano lo dice la danza finale sulle note di My way di Frank Sinatra, con gli stessi movimenti della coreografia iniziale modellati sulla melodia della celebre canzone.