L’unità? Una diversità riconciliata
«Nel Vangelo che abbiamo ascoltato, Gesù prega il Padre che “tutti siano una cosa sola” (Gv 17, 21). In un’ora cruciale della sua vita si ferma a chiedere l’unità. Il suo cuore sa che una delle peggiori minacce che colpisce e colpirà il suo popolo e tutta l’umanità sarà la divisione e lo scontro, la sopraffazione degli uni sugli altri. Quante lacrime versate! Oggi vogliamo (…) chiedere al Padre con Gesù: che anche noi siamo una cosa sola. Non permettere che ci vinca lo scontro o la divisione». Così ha iniziato Bergoglio, nell’omelia del 17 gennaio, in Cile. Un pensiero forte ma in fondo già sentito. Quel che è seguito, invece, è apparso originale: «Bisogna stare attenti a possibili tentazioni che possono apparire e “inquinare dalla radice” questo dono che Dio ci vuole fare».
Quali sono queste tentazioni? La prima è quella «dei falsi sinonimi», cioè «confondere unità con uniformità». Bergoglio la spiega così: «Gesù non chiede a suo Padre che tutti siano uguali, identici; perché l’unità non nasce né nascerà dal neutralizzare o mettere a tacere le differenze». Poi aggiunge, mettendo l’accento sulla vicenda storica, tragica, del popolo mapuche: «L’ unità non è un simulacro né di integrazione forzata né di emarginazione armonizzatrice. La ricchezza di una terra nasce proprio dal fatto che ogni componente sappia condividere la propria sapienza con le altre. Non è e non sarà un’uniformità asfissiante che nasce normalmente dal predominio e dalla forza del più forte, e nemmeno una separazione che non riconosca la bontà degli altri».
Il papa applica così un discorso rivolto alla comunità neo-cristiana di Gerusalemme nella nota “preghiera sacerdotale”, il capitolo 17 del Vangelo di Giovanni, alle relazioni tra i popoli. Passa in qualche modo dal “micro” al “macro”. E insiste: «L’unità è una diversità riconciliata perché non tollera che in suo nome si legittimino le ingiustizie personali o comunitarie. Abbiamo bisogno della ricchezza che ogni popolo può offrire, e dobbiamo lasciare da parte la logica di credere che ci siano culture superiori e culture inferiori». Per spiegare con un’immagine comprensibile a tutti il suo pensiero, Bergoglio fa un esempio: «Un bel chamal (manto) richiede tessitori che conoscano l’arte di armonizzare i diversi materiali e colori; che sappiano dare tempo ad ogni cosa e ad ogni fase. Potrà essere imitato in modo industriale, ma tutti riconosceremo che è un indumento confezionato sinteticamente».
Torna poi per un istante al “micro”, il papa, quando afferma che «non è un’arte da scrivania, l’unità, né fatta solo di documenti, è un’arte dell’ascolto e del riconoscimento. In questo è radicata la sua bellezza e anche la sua resistenza al passare del tempo e delle intemperie che dovrà affrontare». Per poi ritornare al “macro”: «L’unità di cui i nostri popoli hanno bisogno richiede che ci ascoltiamo, ma soprattutto che ci riconosciamo (…). Questo ci introduce sulla via della solidarietà come modo di tessere l’unità, come modo di costruire la storia; quella solidarietà che ci porta a dire: abbiamo bisogno gli uni degli altri nelle nostre differenze affinché questa terra continui a essere bella. È l’unica arma che abbiamo contro la “deforestazione” della speranza».
Ma c’è un’altra tentazione nel concepire l’unità: «L’unità, se vuole essere costruita a partire dal riconoscimento e dalla solidarietà, non può accettare qualsiasi mezzo per questo scopo. Ci sono due forme di violenza che più che far avanzare i processi di unità e riconciliazione finiscono per minacciarli. In primo luogo, dobbiamo essere attenti all’elaborazione di accordi “belli” che non giungono mai a concretizzarsi». Quindi non la “perfezione” degli accordi, ma la “imperfezione” della concretezza. Con un richiamo alla regola non scritta della non-violenza: «È imprescindibile sostenere che una cultura del mutuo riconoscimento non si può costruire sulla base della violenza e della distruzione che alla fine chiedono il prezzo di vite umane (…). La violenza chiama violenza, la distruzione aumenta la frattura e la separazione».
Conclusione insieme “macro” e “micro”, per i rapporti tra i popoli così come per quelli all’interno delle comunità cristiane: «Questi atteggiamenti sono come lava di vulcano che tutto distrugge, tutto brucia, lasciando dietro di sé solo sterilità e desolazione. Cerchiamo, invece, e non stanchiamoci di cercare il dialogo per l’unità».
Il centro del discorso del papa sembra essere un’affermazione originalissima: «L’unità è una diversità riconciliata». Nel tendere all’unità, dovere di tutti i cristiani e infondo di tutti gli esseri umani, vi sono due possibili punti di partenza, “sociologicamente” parlando: partire dall’uno, cioè dal vertice della piramide, o partire dal diverso, cioè dalla base della stessa piramide, per usare un’altra metafora già proposta da Bergoglio. Scegliere questa seconda via, secondo il papa, può evitare la tentazione del potere (ben inteso, anche spirituale) che preferisce l’uniformità all’unità, che vuole neutralizzare l’originalità delle parti, che appiattisce le differenze per affermare la legittima centralità della “unica visione” (quella del Cristo in mezzo al suo popolo) che può però facilmente trasformarsi in illegittimo “pensiero unico” (pensare che il fatto stesso di apparire uniti porti alla presenza di Gesù tra i suoi). Innescando al contrario processi di «riconciliazione», di «riconoscimento», di «avvicinamento», di «dialogo», riconoscendosi tutti peccatori e bisognosi della misericordia di Dio e degli uomini.
Una seconda affermazione sembra centrale nel Bergoglio-pensiero sull’unità: «L’unità, se vuole essere costruita a partire dal riconoscimento e dalla solidarietà, non può accettare qualsiasi mezzo per questo scopo». Cioè l’unità non può essere raggiunta con metodi coercitivi che hanno in sé una dose più o meno elevata di violenza, ma può essere raggiunta solo con «il dialogo per l’unità» che necessita di «riconoscimento» e «solidarietà» per essere efficace.
Insomma, di che riflettere, sia per la vita delle comunità cristiane, sia per quella dei popoli. Anche questa è una delle grandezze di Begoglio: riuscire a “tenere assieme” nella visione cristiana della vita la dimensione “micro”, quella della comunità, e quella “macro”, cioè quella dei popoli.