L’unità d’Italia di Roberto

«I 40 minuti di Roberto tra risa, stupore e commozione hanno reso onore e giustizia all’Unità d’Italia, nell’ovattato palco dell’Ariston». Un lettore dalla Sardegna

Lo confesso. Ho dato una mano all’auditel del Festival di Sanremo. Non so se questo potrà portarmi consenso o disappunto, ma così è. L’ho fatto perché ho aspettato Benigni, tanto atteso, tanto criticato, tanto amato con o senza i compensi a vari zeri.

Da qualunque parte stai, comunque Benigni non delude. E’ una maschera di quel teatro italiano che ha fatto la storia e la cultura, non solo del patrio suolo. E’ un narratore e un affabulatore senza grandi rivali. Conosce, studia, sa divulgare. Ovviamente, nato nella irriverente Toscana, quella della provincia, non riesce a contenere la botte dello sberleffo, che è dissacrante, ma mai volgare non tanto sull’uso della parolaccia, in Toscana del resto non si può …, ma nel senso del rispettare le persone.

 

E’ facile paragonare Benigni a quei ruscelli di montagna che più scendono e più prendono acqua fino a creare rapide sempre più scroscianti e salterine. La sua eloquenza che trasporta, tra l’ansia e l’adrenalina, è ampia con una non sempre riscontrabile capacità linguistica e culturale. Qualcuno lo accusa di essere didascalico e retorico, ma tant’è, sa arrivare alle corde emotive ed anche a mettere a nudo, vedi Dante, squarci di nostre lacune culturali …. Ma dopotutto è bene ricordare, come lui ha detto, che «l’Italia è il primo Paese dove è nata prima la cultura della nazione» e i chilometri dei Musei di tutto il mondo sono pieni di questa certezza.

 

Il volo disordinato, disarmonico, ma innamorato della storia dei 150 anni dell’Unità compiuto da Benigni ha sicuramente il merito di aver seminato nei cuori delle persone, oltreché l’amore alle tante figure della storia scritta o vissuta, anche la passione per le radici perché, come egli ha ricordato: «se non ci si ricorda del passato, non si sa dove si va»,. E ha spinto la voglia di andare a rileggere, magari nella cosiddetta storia minore, le vicende italiche. Ha reso omaggio, cosa buona e giusta in questa Storia troppo maschilista, a «le donne del Risorgimento, donne che hanno combattuto per noi …».

 

Non vi nascondo, e chi lo conosce tutto scagli la prima pietra, una certa vergogna a non ricordare tutti i versi dell’Inno di Mameli – Novaro (giusto ricordare il musicista dimenticato ….). Altre piccole perle della lezione storico-filologica dell’attore sono state il ricordare una delle eccellenze italiane, i Comuni liberi «che abbiamo inventati noi» e che mai abbastanza dovremmo amare. Ed ancora che «un Paese che non proclama con forza i propri valori è pronto per l’oppressione» che oggi, rispetto al periodo del Risorgimento è meno visibile, meno armata di artiglieria ma, come l’innocente aria, penetra e devasta.

 

E l’amore sperticato di Benigni per l’Italia, che travasa da tutti i pori, gli fa dire, sicuramente non senza strascichi polemici che «questo Paese è talmente libero che ci si può persino permettere di dire che non si vuole festeggiare l’anniversario dell’Unità».

Finale al miele, ma se sappiamo superare la barriera buonistico-calorica, possiamo trarre beneficio dal Benigni pensiero: «viviamo in un paese memorabile: siate felici e se qualche volta la felicità si scorda di voi, voi non scordatevi di lei. E se è cara non è di buona qualità». E dopo qualche brivido al canto dell’Inno scarno e senza enfasi, la platea – bipartisan – del Teatro sanremese lo ringrazia tutto in piedi.

 

Attilio Menos

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