L’unità dal basso
Professore, la gente si chiede dove va il mondo. Che risposta può dare l’esperto di relazioni internazionali? “Oggi si propongono letture particolari che fanno perdere di vista l’unità delle relazioni internazionali. Dietro ad esse emerge una interpretazione del corso della storia: si ritiene cioè che singoli stati o singoli gruppi di stati determinino la vita internazionale. Manca perciò una visione unitaria: la politica internazionale appare la somma di diverse politiche estere, in cui i problemi vengono valorizzati solo se hanno un diretto riscontro negli interessi dei singoli paesi. Ma la ricerca di una dimensione veramente internazionale, che coinvolga tutti con i problemi di tutti, è ineluttabile, perché ormai la complessità delle singole situazioni – ambiente, diritti umani, economia – è tale che gli stati non hanno più la capacità di gestirle singolarmente”. Facilità di spostamenti e media portano alla globalizzazione. C’è in parallelo uno sviluppo verso l’unità del mondo? “L’idea di spaziare sul pianeta non è nuova, ma solo nell’ultimo periodo tale prospettiva è diventata realtà, purtroppo solo per una parte dell’umanità: il 5 per cento della popolazione mondiale gestisce infatti il 90 per cento delle risorse. E solo questo 5 per cento può spaziare. Si tratta quindi di un traguardo raggiunto ma non condiviso. È questo uno dei limiti dello stesso processo di globalizzazione, che in sé non è né positivo né negativo, ma che lo diventa in base all’uso che se ne fa. “Un lato positivo della globalizzazione è che posso ormai rendermi conto della realtà vissuta dall’altro. Le distanze sono state annullate sul piano commerciale ed economico, ma non in prospettiva ideologica. Dopo aver letto il mondo diviso tra est e ovest o tra nord e sud, oggi lo vedo diviso da categorie contrapposte come quelle di ricco e povero (paese, popolo o persona che sia), che fanno automaticamente emergere la categoria di nemico. “Si registra però anche una tendenza ad unirsi, non tanto dall’alto degli stati (anche se tecnicamente sono poi essi ad unirsi), ma dal basso: i popoli hanno sempre più coscienza che nell’unirsi non perdono la propria identità e sanno di poterla ritrovare nello stesso scambio tra popoli. Fino a qualche decennio fa i tentativi di unità avvenivano sul piano politico, perché bisognava scongiurare il conflitto nucleare e si dovevano allargare gli spazi economici. Oggi, invece, tale unità si realizza in funzioni specifiche, ad esempio la tutela non dell’ambiente in genere ma delle acque, dei territori, dell’aria. Ciò mostra come sia in atto un processo di unità del mondo della cultura, della scienza, degli operatori dei singoli settori”. Il carisma dell’unità ha sempre prospettato l’ideale di un “mondo più unito”. Quali i principali stimoli offerti al progresso delle relazioni internazionali? “Ho sempre considerato la spiritualità dell’unità non solo come un metodo di lettura dei fatti internazionali, ma anche di azione. La prospettiva del mondo unito non è quella della creazione di un superstato, ma di un tentativo di organizzare il mondo a partire dal basso, attorno ad obiettivi comuni. “Due elementi a questo proposito riterrei operanti a livello internazionale: da un lato il poter “contagiare” gli altri attorno all’idea che il mondo o è uno, o non è. L’idea del mondo unito è quella di un’unica famiglia umana, non quella di cancellerie che elaborano soluzioni tecniche che mancano di anima. Da un altro lato debbo interrogarmi su ciò che posso fare personalmente per contribuire alla comunione tra i popoli. Guardando ai problemi del mondo, verrebbe da dirsi che, al massimo, posso interessarmi ad essi, senza influirvi. Invece anche tale semplice interesse è una scelta di campo: non posso isolarmi e pensare solo ai problemi del condominio, della città o dello stato, ma debbo avere un’anima “dilatata” sull’umanità, per essere un “uomo-mondo”. “Guardando alla dinamica delle organizzazioni internazionali, ci si accorge che le decisioni sono determinate dall’interesse di pochi o dalla somma dei singoli interessi. La spiritualità dell’unità mi suggerisce invece che è l’interesse oggettivo delle popolazioni mondiali che dovrebbe portare alle decisioni. Questa prospettiva potrebbe far superare le crisi che tanto spesso bloccano gli organismi internazionali”. “Amare la patria altrui come la propria “, sostiene la Lubich. Come potrebbe realizzarsi tutto ciò? “Il tema della patria è legato alla difesa dell’identità. Il pensiero dell’unità suggerisce di difendere le singole identità, cioè di capacità di fare emergere quello che di positivo esiste in ogni cultura. È un’idea espressa già nel 1959, quella di un “parlamentino mondiale” composto da entità dalle caratteristiche diverse, ma un obiettivo comune. “Amare la patria altrui non è solo uno slancio di generosità, ma la comprensione della situazione dell’altro, per condividerla senza porsi in posizione di superiorità o estraneità. Dovrebbe portare a uno scambio reciproco di doni che faccia dire: qualunque sia la tua situazione – istituzionale, politica o economica -, io la valorizzo, anche se non corrisponde ai miei parametri. “Va quindi superata l’idea di patria intesa solo come territorio o come stato; va invece intesa come “terra dei padri”, un’idea di Giovanni Paolo II. Essa, per me come persona, non è allora lo stato, ma il mondo. In questa concezione di patria trovo una mia collocazione nella famiglia umana, che non annulla le diversità, ma solo gli elementi contradditori. Qualcuno oggi parla di una “Nuova Babele”, in cui il problema delle lingue sarebbe insormontabile. In realtà Chiara Lubich stessa dimostra come ciò non corrisponda a verità, perché riesce a parlare al cuore di ogni uomo, oltre gli idiomi. Se non conosco la lingua dell’altro, esistono gli interpreti; ma se non so cosa dire, essi non servono più. “Ma c’è di più: l’idea dell’amare la patria altrui ben si lega alla “regola d’oro”, perché come già detto non basta più il fondamento di una reciprocità ridotta all’idea che io non faccio se l’altro non fa altrettanto. Questa è la logica della guerra e della rappresaglia, a cui siamo già abituati. Quella della regola d’oro è invece una reciprocità in cui si agisce indipendentemente dal fatto che l’altro possa fare altrettanto nei miei confronti. Essa diventa così lo strumento privilegiato per dialogare, ma anche per arrivare all’obiettivo dell’amare la patria altrui come la propria. E quindi al mondo unito”.