Nomine europee, Italia isolata

Dopo le elezioni europee, comincia il complesso processo che porterà alla scelta delle persone da mettere ai posti chiave delle istituzioni europee. Dietro la designazione delle persone, tuttavia, la posta in gioco è la visione sull’Unione europea per i prossimi cinque anni

Il primo vincitore delle elezioni europee è stata l’affluenza. Per la prima volta dal 1979, data delle prime elezioni a suffragio universale diretto per il Parlamento europeo (Pe) si è invertito il trend che vedeva, anno dopo anno, diminuire il numero dei votanti.

Per la prima volta dalle elezioni del 1994 si è tornati, complessivamente, a superare la barra del 50% dei votanti. Pur con grandi differenze, dagli oltre 80% di Belgio e Lussemburgo al 22,8% e al 28,8% rispettivamente di Slovacchia e Repubblica Ceca (in entrambi i Paesi, tuttavia, la partecipazione al voto è aumentata di circa 10 punti percentuali rispetto al 2014).

Segno di un maggiore interesse per l’Unione europea, forse della consapevolezza della posta in gioco, del fatto che l’Europa non è un’appendice della politica nazionale, ma il livello a cui i cittadini possono far sentire la propria voce per contare, come insieme continentale, nel mondo, per influenzare decisioni che impattano la nostra vita quotidiana in molti ambiti.

Con l’eccezione di 7 Stati membri, tra cui l’Italia, in cui l’affluenza è diminuita (del 2,5%). Al di qua delle Alpi, dove non per nulla ha stravinto un partito che non aveva neppure presentato un programma per le europee, i risultati elettorali sembrano contare più per gli effetti che avranno sul governo Conte, che per le conseguenze sui giochi politici su scala continentale.

giuseppe-conte-foto-ansaGiochi che sono cominciati martedì sera 28 maggio, con una cena tra i capi di Stato e di governo dei 28, per preparare il terreno per il valzer delle nomine che, con ogni probabilità, sarà finalizzato al Consiglio europeo di fine giugno. Nomine che riguardano praticamente tutti i vertici delle istituzioni Ue (presidente della Commissione, presidente del Consiglio Europeo, Alto rappresentante per la politica estera, presidente del Pe, presidente della Banca centrale europea) e in cui occorre garantire, per quanto possibile, un equilibrio geografico (Europa del Nord e del Sud, Occidentale e Centro-orientale), tra famiglie politiche, tra Stati grandi e piccoli, e di genere.

Chi dà le carte
Popolari e socialisti
, che finora hanno avuto seggi sufficienti a garantire – insieme – la maggioranza al Pe, hanno subito un calo rispettivamente di 37 e 42 seggi, e dovranno cercare alleati, almeno tra i liberali (con cui è alleata La République en Marche di Macron) o anche con i verdi (cresciuti, gli uni, di 43 seggi e, gli altri, di 17). Se nell’elaborazione delle politiche future dell’Ue bisognerà tener conto del massiccio – anche se non maggioritario – voto di protesta verso l’attuale costruzione europea, nelle nomine dei vertici delle istituzioni gli euroscettici sono, di fatto, fuori dai giochi.

L’Italia, in particolare, con un governo non allineato su alcuna delle grandi famiglie politiche europee (la Lega, nonostante i proclami e il desiderio di un grande rassemblement sovranista, farà parte di un gruppo, a Strasburgo, con appena 73 deputati sui complessivi 751), dovrà accontentarsi di un posto di commissario europeo. Salvini, cui spetterà, in virtù del risultato elettorale, proporre il nome del nuovo commissario italiano – o della nuova commissaria – ha espresso un orientamento di massima per il portafoglio, in seno all’esecutivo europeo, della concorrenza (di peso, ma inaccessibile ad un Paese senza alleati come il nostro), o per quelli, più modesti, del commercio o dell’agricoltura.

Le intenzioni dei leader europei si vedono dal diverso atteggiamento della serata del 28 maggio. Se Giuseppe Conte si è presentato appena in tempo per gli antipasti, il presidente francese Macron è arrivato con ben tre ore d’anticipo, per un lungo incontro informale con i premier designati come negoziatori dalle famiglie politiche liberale e socialista.

Un incontro che è andato di traverso ad Angela Merkel. L’intenzione di Macron, infatti, è quella di convincere il Consiglio europeo a designare come presidente della Commissione, una delle cariche di maggiore responsabilità in Europa, una personalità che abbia un’esperienza di governo. Intenderebbe, dunque, ad escludere Manfred Weber, spitzenkandidat dei popolari sostenuto tenacemente dalla Merkel, che ha unicamente un’esperienza di parlamentare.

German Chancellor Angela Merkel, left, speaks with French President Emmanuel Macron during a group photo at an EU-Sahel meeting at EU headquarters in Brussels on Friday, Feb. 23, 2018. European Union leaders meet Friday with counterparts from Africa's Sahel in a show of support for the impoverished region fallen prey to extremists and a key transit point for migrants heading to Europe. (John Thys, Pool Photo via AP)

I nomi citati da Macron sono quelli del francese Barnier, della famiglia dei popolari, già ministro e vicepresidente della Commissione, negoziatore della Brexit per i 27; della liberale Margrethe Vestager, attuale commissaria europea alla concorrenza, già vice-primo ministro danese; e di Frans Timmermans, spitzenkandidat dei socialisti.

Di questi, solo Vestager, una dei sette spitzenkandidaten liberali, e Timmermans hanno una possibilità di ottenere la fiducia del Pe, che ha fatto del sistema dallo spitzenkandidat una battaglia di potere con il Consiglio europeo, e che ha l’ultima parola sulla nomina del presidente della Commissione. Oltretutto, Barnier non sarebbe mai sostenuto dalla Germania in seno al Consiglio europeo, dopo che Macron ha di fatto silurato Weber.

Una volta definita la casella del presidente della Commissione, le altre cariche saranno decise a cascata. Ipotizziamo la nomina di Vestager alla presidenza della Commissione (sostenuta dai nove capi di Stato e di governo che appartengono o sono alleati alla famiglia liberale – anche se il belga Michel solo ad interim, in attesa della delicatissima formazione di un nuovo esecutivo, dopo le elezioni politiche che hanno visto trionfare i due partiti nazionalisti fiamminghi – e dai sei socialisti). A quel punto i popolari esigerebbero almeno una delle rimanenti cariche (senza dimenticare l’equilibrio tra i due pesi massimi, Francia e Germania): per esempio la francese Christine Lagarde (attuale capo del Fmi) presidente della Bce, o Weber presidente del Pe, o ancora la Merkel presidente del Consiglio europeo. In alternativa, il Ppe potrebbe ottenere il posto di Alto Rappresentante con Alex Stubb, il che tra l’altro garantirebbe una rappresentanza di alto livello ai Paesi nordici.

In realtà, nonostante le apparenze, non sono tanto le poltrone ad essere in gioco, quanto una visione dell’Europa. Un tedesco alla guida della Commissione significherebbe una continuità, da molti considerata inaccettabile, con la linea del rigore e dell’austerità (linea sposata, invece, dagli elettori portoghesi e greci, che già ne hanno pagato il prezzo e non vedono di cattivo occhio il fatto che ora siano altri Stati membri a subire le conseguenze del rigore dei conti pubblici).

Le nomine altro non saranno che un’espressione delle priorità e delle politiche comuni che i capi di Stato e di governo vorranno definire per i prossimi cinque anni. Priorità e politiche che, se sapranno o meno rispondere alle attese, ed anche ai malumori dei cittadini, condizioneranno la formazione dei governi che usciranno dalle urne nel prossimo quinquennio, oltre che la composizione del Pe dal 2024 in poi.

 

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