L’Unione europea patria di tutti
Era il primo gennaio del 1958 quando entrò in vigore il Trattato istitutivo della Comunità economica europea, la Cee. Un anno prima, il 25 marzo 1957, il documento era stato sottoscritto da Italia, Belgio, Francia, Lussemburgo, Olanda e la Repubblica Federale Tedesca, che avevano siglato anche l’atto costitutivo della Comunità europea dell’energia atomica, noti – entrambi gli accordi – come i Trattati di Roma. Per il nostro Paese firmarono il presidente del Consiglio Antonio Segni e il ministro degli Esteri, Gaetano Martino.
Alcide De Gasperi, il “padre” italiano, che col tedesco Konrad Adenauer e i francesi Robert Schumann e Jean Monnet aveva sognato una terra comune libera e fraterna, senza confini né muri, non c’era più. Era morto tre anni prima, con la sicurezza di aver messo le basi di un futuro di pace nel Vecchio continente e il dispiacere di non essere riuscito a varare un accordo sulla sicurezza e sulla difesa. Un tema, quest’ultimo, di cui si sta discutendo ancora oggi, con il ministro della Difesa francese, Florence Parly, che ha proposto la formazione di una forza militare europea (l’European Intervention Initiative), che includa anche il Regno Unito, nonostante sia in corso il processo di uscita dall’Unione (Brexit). Se ne sta discutendo in Lussemburgo, con l’Italia che al momento si dice scettica e chiede maggiori informazioni.
Il contributo alla cooperazione internazionale di De Gasperi, primo presidente del Consiglio della Repubblica italiana e fondatore della Democrazia cristiana, è stato selezionato per il tema storico della prima prova di esame della maturità, insieme ad Aldo Moro. Una traccia scelta, secondo i dati del ministero dell’Istruzione, solo da uno studente su 100. L’impegno di quest’uomo straordinario rischia dunque di essere dimenticata tra programmi di studio incompleti e un’attualità che guarda con sospetto all’Unione europea e punta il dito contro l’accoglienza, l’apertura, la fraternità. Eppure, Alcide De Gasperi resta un modello umano e politico, che partendo da una posizione di svantaggio, riuscì a rendere l’Italia partecipe – addirittura fondatrice – della nascita dell’Europa unita.
Era il 10 agosto del 1946: la guerra era finita da un anno e gli italiani avevano da poco scelto la Repubblica alla monarchia. Alcide De Gasperi si recò a Parigi per discutere del trattato di pace tra l’Italia – uscita sconfitta insieme alla Germania e alle altre potenze dell’Asse dalla Seconda guerra mondiale – e le forze alleate. Dopo tre giorni di anticamera, lo statista fu accolto in un’atmosfera glaciale nel Palais du Luxembourg, dove parlò da italiano, democratico, antifascista e in qualità di rappresentante della nuova Repubblica, tutta rivolta verso la costruzione di una pace duratura e la cooperazione tra i popoli. Nonostante le durissime condizioni che furono imposte al nostro Paese, il presidente del Consiglio riuscì a trasformare quel momento difficile in un’opportunità per riportare l’Italia sconfitta al centro delle relazioni internazionali, rendendola di nuovo protagonista, ma questa volta di una politica di pace e fraternità.
Per De Gasperi, ha dichiarato Giuseppe Tognon, presidente dell’omonima Fondazione trentina, «l’elemento “più vitale” per una democrazia è “l’amore” che “si chiama, socialmente, fraternità ed esige lo spirito di sacrificio nel servizio della comunità”. L’amore, dunque, come “forza propulsiva” della democrazia». De Gasperi, però, non era un ingenuo e interpretava la fraternità come «la capacità, concretissima, di spendersi per un’idea e una concezione dell’uomo». Come strumento utile per la vita democratica indicava, invece, la pazienza. Non si tratta, per Tognon, semplicemente di stare calmi e di non farsi prendere dalle emozioni: vuol dire, invece, esercitare la speranza. «Non abbiamo – scriveva De Gasperi – il diritto di disperare dell’uomo, né come individuo né come collettività, non abbiamo il diritto di disperare della storia, poiché Dio lavora non solo nelle coscienze individuali, ma anche nella vita dei popoli».
L’Europa di De Gasperi, ha sottolineato Alessandro Pajno, presidente del Consiglio di Stato, «è quindi nello stesso tempo un fatto culturale e, per la stessa ragione, un fatto istituzionale; una scelta per l’integrazione nel mondo occidentale e un modo di tentare di costruire un ruolo per il vecchio continente in tale mondo; una passione del cuore e una ragione della politica; un riconoscimento del valore superiore dell’unità e nello stesso tempo una presa di posizione contro un modo separato di considerare la dimensione nazionale». Il sogno europeo, dunque, «non è tanto un ideale di politica estera, ma è un modo di porre il proprio Paese, la propria democrazia, in una relazione vitale con un complesso di cui fa parte, destinato a divenire il nuovo orizzonte».
L’Europa moderna, aveva affermato il presidente Sergio Mattarella durante la “Lectio degasperiana” del 2016, «ha nel cuore un’idea fattiva e attiva del bene e del progresso economico e sociale e premia l’accordo tra la concretezza dei bisogni e il riconoscimento di sempre nuovi diritti… De Gasperi intuiva che l’Europa non era una prospettiva da tempi ordinari, ma per tempi straordinari, e per leader autentici». L’unità europea, aveva sottolineato Mattarella, «è sempre un’impresa in salita, dove alle difficoltà e alle visioni anguste si devono contrapporre fattori ideali e politici. Senza una memoria condivisa sulla storia dell’Europa moderna, continente straordinario per innovazioni di ogni genere, ma anche in preda a forti tensioni, non sarà possibile cogliere il valore politico di una unione che va molto al di là delle convenienze minute e particolari».
Se si vuol essere fedeli a De Gasperi, dunque, per Pajno l’Unione europea non può che essere «l’Europa di tutte le integrazioni culturali, sociali ed etniche. Una patria per la persona umana». Una patria per tutti noi.