L’Unasur prossima alla sua fine?

L’organismo che riunisce i Paesi dell’America del Sud è ormai bloccato e vari governi hanno chiesto di uscirne. Dall’eccessivo ideologismo che ne ha contrassegnato la nascita, all’attuale "fai da te"

Appena sette anni dopo la sua nascita bisognerà redigere il certificato di morte della Unasur? Sebbene l’America del Sud abbia un grande bisogno di avanzare nell’integrazione regionale, sono ormai pochi i governi disposti a mantenere in vita questo blocco sorto sotto la spinta dell’ex presidente Inacio Lula da Silva – oggi alle prese con le vicissitudini di una condanna in secondo grado a 12 anni per corruzione -, e degli estinti colleghi: il venezuelano Hugo Chávez e l’argentino Néstor Kirchner.

Il modernissimo edificio della sede dell’organismo, sito alle porte di Quito, in Ecuador, inaugurato appena due anni fa, è stato da poco definito un “elefante bianco” – un’opera inutilizzata – dal presidente ecuadoriano Lenin Moreno. Il capo di Stato ha inoltre ricordato che Argentina, Colombia, Cile, Brasile, Paraguay e Perù hanno chiesto di uscire dal blocco. Ed il segno più tangibile della mancanza di consenso e di fiducia nell’Unasur è espressa dal fatto che non si è raggiunto un accordo per nominare un nuovo segretario generale, la cui sede è vacante dal febbraio scorso. La ragione dei dissapori interni è abbastanza evidente: nessuno se la sente di avere contatti col presidente venezuelano Nicolas Maduro, il cui mandato secondo le diplomazie dei Paesi citati è carente di legittimità, ormai difeso – e pure a malavoglia – solo dal boliviano Evo Morales e da Cuba.

La situazione di crisi dipende dalla giravolta politica degli ultimi due anni, durante i quali è c’è stato uno spostamento quasi generale verso governi di destra o centrodestra nella regione o, ad ogni modo, con un orientamento chiaramente neoliberista. La principale accusa mossa contro l’Unasur è appunto quella di una eccessiva ideologizzazione della sua azione e della sua strategia, che oggi non è condivisa dagli attuali governi.

L’idea di un blocco sudamericano, regione nella quale il sogno di un’unica Patria sudamericana non è mai sopito, prese corpo anche come risposta all’eccessiva ingerenza di Washington all’interno dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa). E ciò, in realtà è coinciso anche con una chiara politica della Casa Bianca che, dal 2005 in qua, ha depennato il Sudamerica dalla lista delle sue priorità, mentre i Paesi sudamericani hanno preferito sviluppare un rapporto commerciale privilegiato con Cina e India, grandi compratori di prodotti locali, in modo speciale alimenti.

Le circostanze, in realtà hanno consentito una maggiore autonomia politica dei Paesi sudamericani, un fatto piuttosto inedito. Ma le coincidenze ideologiche hanno pesato troppo in questo processo, senza trasformarlo in una agenda di sviluppo la cui necessità è pressante. Il progetto di una banca di sviluppo regionale è rimasto tale, la regione è carente di strade, autostrade, ferrovie che colleghino agilmente e in modo sicuro i Paesi ed avrebbe bisogno di non meno di 180 miliardi di dollari in infrastrutture. Praticamente, non ci sono corridoi viari e nemmeno sono collegati tra loro i porti del Pacifico con quelli dell’Atlantico. Col risultato che le merci, per andare in Asia o in Europa, devono affrontare per mare la circumnavigazione del subcontinente o devono avventurarsi in un lungo e poco sicuro tragitto terrestre in camion. Se si paragonano i dati del commercio interno regionale, questo è meno della terza parte del commercio totale, quando in Europa è più del 70%.

Ma per sviluppare progetti comuni, anche se solamente commerciali, ci vuole, da una parte, una politica di Stato a lungo termine, ma dall’altro una fiducia mutua a prova di cambiamenti di governo. E, purtroppo, siamo passati da un estremo all’altro: oggi prevale una logica individualista. Ciascuno è concentrato nelle questioni interne e deambula per i propri labirinti senza che nessuno riesca a vedere nell’integrazione uno strumento per uscirne, né si ravvisano leaders capaci di rispolverare un «sogno comune». E, forse, per questo la breve traiettoria dell’Unasur pare sia prossima a concludersi. La regione torna così alla logica del “fai da te”, come se la globalizzazione non avesse insegnato niente. Peccato.

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