L’umana utopia dell’isola degli schiavi
Della vasta produzione di Pierre de Marivaux, “L’isola degli schiavi”, opera in equilibrio tra dramma didattico e commedia amorosa, appartiene ad una delle tre “isole” – “L’isola della ragione” e “La nuova colonia” – in cui l’autore esprime, attraverso favole utopiche, le proprie idee politiche e sociali (quelle idee libertarie che porteranno alla rivoluzione francese).
In quest’opera del 1725, vengono rovesciate le gerarchie sociali: i servi diventano padroni e viceversa, anche con scambio di abiti e di nomi. È la regola cui deve assoggettarsi anche la coppia di naufraghi, Ificrate e Eufrosine, con relativi domestici, Arlecchino e Cleante, che vi giungono da Atene. Ma i padroni provvisori si rivelano meno capricciosi e più sensibili di quelli che padroni lo sono per nascita; e anche se alla fine si ristabilisce l’ordine, la morale è che i padroni quando erano padroni avevano agito ingiustamente, mentre i servi, divenuti padroni sono stati capaci di perdonare anziché vendicarsi. «Riflettete su questo!», chioserà Trivellino, il saggio governatore dell’isola dove vige l’insolita legge “di redenzione”, così nominata perché un tempo abitata da schiavi fuggiti dalle angherie dei loro padroni: questi e i servi dovranno scambiarsi i ruoli, i primi per pentirsi della propria superbia e arroganza, i secondi per liberarsi del rancore che nutrono verso i padroni. Solo dopo la “redenzione”, ognuno riprenderà il proprio ruolo e tutti potranno far ritorno nel vecchio mondo, più umani e più giusti.
Testo attualissimo quello della dialettica servo-padrone trasferibile nelle dinamiche comuni del rapporto di gerarchie sociali; e una morale, quella del perdono, del pentimento, del rispetto, che oggi fa un po’ sorridere, ma che si addice, nella sua semplicità e immediatezza, ai nostri tempi e sempre perché ascritta nel profondo dell’uomo. Ben venga allora una nuova messinscena – questa di Khora.
Teatro, con la snella traduzione e l’adattamento di Ferdinando Ceriani, anche regista, e Tommaso Mattei –, che col divertissement insito nella commedia di Marivaux (che attinge alla Commedia dell’Arte, come, ad esempio, le coppie parallele di padroni e servi, e i travestimenti) ci fa comunque riflettere. La leggerezza di toni della lineare regia di Ceriani è affidata alla bravura degli attori, ben sintonizzati, necessariamente, tra loro, nel ritmo brillante tutto dettato dalle parole, e conferendo ad esse una musicalità supportata anche da momenti di canto. Nella scena essenziale, intima, di uno scoglio su una pedana girevole, tra suoni cupi e luci misteriose, tra gag e buffonerie, il gioco teatrale e onirico si dispiega nella sua insita, semplice magia. Merito della capacità degli interpreti Carlo Ragone, Giovanni Anzaldo, Ippolita Baldini, Carla Ferraro e Stefano Fresi. E sono la coppia di servi, Anzaldo e Ferraro, nella girandola di stati d’animo e condotte, a dar prova di una maggior fisicità e presenza con la loro continua frenesia, un’esplosione d’energia per la nuova condizione non più di schiavi ma di padroni per un giorno.
“L’isola degli schiavi”, di Pierre de Marivaux, traduzione e adattamento Ferdinando Ceriani e Tommaso Mattei, regia Ferdinando Ceriani, scene e costumi Marta Crisolini Malatesta, musiche Stefano Fresi, luci Andrea Burgaretta. Produzione TSA-Teatro Stabile D’Abruzzo. A Roma, Piccolo Eliseo, fino al 9/4.