L’ultimo segreto di Oscar Wilde
"Tutti noi viviamo nel fango, ma alcuni guardano alle stelle". Un genio nella vita, un talento nell'arte, tra castigo e redenzione.
André Gide, che lo incontrò più volte, disse che Oscar Wilde non era un grande scrittore, e forse è vero, tanto più che lo stesso Wilde diceva di aver messo il suo genio nella propria vita, e nella propria opera solo il suo talento; ma si tratta di una verità da esplorare, perché complessa e contraddittoria.
Infatti, oltre ai celebri aforismi – alcuni geniali, divertenti, altri cinici e qualcuno ripugnante – c’è da ricordare che il famoso Ritratto di Dorian Grey, se non è, come non è, un grande romanzo, è certamente uno dei tre romanzi-verità della crisi decadentistica europea (con À rebours di Huysmans e Il dottor Jekyll e Mister Hyde di Stevenson) che mettono a nudo la schizofrenia culturale, tra materialismo ideologico ed edonismo estetizzante, di una borghesia implosa in sé stessa e spiritualmente naufragata.
E se Wilde non è grande (ma profetico, sì) per questa apocalisse del dandysmo, come per le sue mondane e anticonformisticamente conformiste commedie brillanti, lo è certamente nei suoi racconti per bambini (Oscar fu un tenerissimo padre): due di essi, Il principe felice e Il gigante egoista, sono purissimi capolavori di verità sul dolore e l’amore autentici.
Ma lui, talentuoso irlandese trapiantato nei salotti londinesi, doveva pagare il suo smarrimento morale e la sua autentica per quanto tortuosa ricerca della verità nella bellezza (la bellezza oscurata nell’ingiustizia capitalistico-coloniale dell’Europa, sepolta nel suo ateismo, sfigurata nel suo utilitarismo – già Leopardi aveva detto: «Stolta, che l’util chiede/ e inutile la vita/ quindi più sempre divenir non vede»); doveva pagarli fino all’ultima feccia tra un sempre più inverosimile culto di sé, un’etica paradossale del piacere a tutti i costi, e un realistico imparare, crollo dopo crollo, la lezione del tanto rimosso o mascherato dolore, che solo nei fiabeschi racconti citati riemerge puro.
La lunga parabola edonistica di una breve vita (1854-1900) si conclude in un alberghetto di Parigi dove Oscar muore entrando nella Chiesa cattolica in articulo mortis («la sola religione in cui morirei»), cioè raggiungendo quella fede che aveva sempre cercato e schivato, perché la conciliazione di verità e bellezza che in essa gli sembrava possibile, anzi certa, aveva temuto che soffocasse la sua originalità, sempre più, d’altra parte, declinante e perseguitata.
È stando per due anni recluso nel carcere di Reading, che lo distrugge, dopo il drammatico grottesco processo prima intentato e poi subìto per l’accusa di omosessualità, che Oscar Wilde scopre due fiori che non aveva mai coltivato: la pietà – pur essendo dotato di ingenua bontà naturale – e soprattutto la sconosciuta umiltà, su cui troviamo parole grandi: «Ora trovo nascosto in fondo alla mia natura qualche cosa che mi dice che nel mondo intero niente è privo di significato, e tanto meno la sofferenza. Quel qualche cosa nascosto in fondo alla mia natura, come un tesoro in campo, è l’umiltà. È l’ultima cosa che mi sia rimasta, e la migliore di tutte; la scoperta finale a cui sono giunto; il punto di partenza per una evoluzione nuova. (…) Di tutte le cose è la più misteriosa. Non possiamo darla via, e gli altri non possono darla a noi. Non possiamo acquistarla, fuorché cedendo in cambio tutto ciò che abbiamo. Soltanto quando abbiamo perduto tutto, ci accorgiamo di possederla».
La cosa interessante è che anche i suoi amici decadenti, esteti e dandy finiscono in maggioranza cattolici, mentre Oscar stesso, nel suo immaturo giocare a rimpiattino con la propria anima, pur avendo scoperto a proprie spese che il dolore «è il Signore di questo mondo», manca l’aggancio decisivo con l’unico personaggio veramente grande della sua vita, la moglie Costance, bella, intelligente, colta, senza limiti comprensiva, che lo avrebbe riaccolto pur dopo essere stata costretta per causa sua a lasciare con i figli l’Inghilterra per l’Italia e a cambiare cognome; e invece Oscar si rimette a viaggiare con l’amico, forse ex amante, Alfred Douglas, sua rovina all’origine del processo. È imperdonabile; e allora è solo la morte che può guarirlo: come accade.
Eppure: «Tutti noi viviamo nel fango, ma alcuni di noi guardano alle stelle». Eppure aveva scritto versi commossi su Pio IX. Eppure poteva dire: «Non ho fatto del mio cuore un cuore di pietra». Eppure aveva scritto meravigliosamente per la sorellina morta a nove anni: «Sia lieve il passo, ella è vicina/ sotto la neve,/ parla sommesso, ella può udire/ spuntare i fiori». Eppure, non sapendo forse di ripetere il grande Eraclito («I desideri si soddisfano al prezzo dell’anima»), aveva affermato: «A questo mondo vi sono solo due tragedie: una è non ottenere ciò che si vuole, l’altra è ottenerlo. Questa seconda è la peggiore, la vera tragedia».
A un uomo così, per quanto smarrito, non poteva bastare “l’arte per l’arte” e il tentativo impossibile di fare della sua stessa vita la più grande opera d’arte. Infatti aveva il coraggio di confessare che buona parte della sua “perversione morale” – parole sue – era dovuta alla proibizione da parte di suo padre di diventare cattolico.
Ma Oscar leggeva il grande J.H. Newman, Dante, il “cattolico” (studi recenti lo ritengono molto probabile) Shakespeare, con i quali irrigava la “terra benedetta” del dolore; imparava ad accettare il castigo come redenzione, e, pur persistendo nel tracciare una tremenda autodiagnosi («Ognuno uccide l’oggetto del proprio amore»), che dice quanto continuasse ad essere immaturo proprio nell’amare, trovò il coraggio finale dell’abbandono in Dio. Non è poco.
Il lettore che vuole approfondire troverà l’aiuto di p. Gulisano (Il ritratto di Oscar Wilde, Ancora 2009) e dello stesso Gide (Gli ultimi anni di Oscar Wilde, dandy decaduto, Stampa Alternativa 2008).
Se vogliamo capire tanti Peter Pan del nostro tempo, e il Peter Pan che cova sempre in noi stessi, Oscar Wilde continua ad esserci molto utile, a volte fraterno.