L’ultimo saluto al vescovo Ablondi

L'intera città si è congedata con commozione da un autentico precursore del dialogo ecumenico e interreligioso.
Ablondi

Livorno. Un’intera città – laica, operaia e marinara per vocazione, roccaforte della sinistra storica (qui è nato il Partito comunista, nel ’21) – è qui in questo afoso pomeriggio d’agosto per salutare il suo vescovo Alberto, partito per il suo ultimo viaggio a 86 anni. Sindaco in testa.

 

La Tv locale – che ha seguito tutto in diretta – mostra gente abbronzata che non si vergogna di piangere. Non è consueto che la piccola storia personale di un uomo si trovi ad incrociare le domande della grande storia e quelle del proprio tempo. Tanto meno il divenirne interprete di livello. Ma proprio così è stato per il vescovo Ablondi, che ha intercettato con mente libera e ampia le sfide più vere della Chiesa e della società si da prima del Concilio.

 

Squisitamente colto, arguto, mai banale, una voce che sapeva giocare con le parole per spiegare la Parola, Ablondi ha precorso la frontiera del dialogo ecumenico in tempi davvero non sospetti (… o meglio: molto sospetti!). Siamo infatti nel 1952 quando s’inventa di chiamare i pastori delle comunità riformate presenti nella sua città – Sanremo, dove era diventato prete nel ’47 – proponendo loro una lettura comune della Scrittura. Qualche sguardo storto, c’è chi non capisce, ma la cosa funziona. È l’incipit di quella lunga e straordinaria passione ecumenica che lo vedrà protagonista delle tappe fondamentali di questo dialogo fino ad oggi.

 

Dopo Sanremo è chiamato nel ’66 a Livorno, prima come vescovo ausiliare e poi dal ’70 come ordinario. Una città “inventata” dai Medici in funzione del porto: “porto franco”, avamposto per i commerci sul mare della Firenze del Granducato; “città aperta” popolata grazie alle Leggi Livornine del Granduca Ferdinando (1590), che concedeva l’ecumenica protezione e privilegi vari a  «mercanti, calafati e marinai di qualsivoglia nazione, ponentini e levantini, spagnoli e portoghesi, Greci, todeschi et italiani, Hebrei e turchi, Mori e persiani» (e anche verso chi aveva pendenze con la legge, aggiungo io); città dove la comunità ebraica è di casa da sempre ed ebrei sono alcuni tra i padri fondatori. Sono queste le radici della città dove Ablondi arriva, e intravede un laboratorio unico per approfondire la sua riflessione sul dialogo ecumenico e testarlo sul campo.

 

Ben presto un altro dialogo nasce con la gente di questa città dissacrante e bottegaia, capace di mettere insieme falce e martello con la Madonna di Montenero, ma che come ogni città di porto sa pesare al volo il valore e l’onestà delle persone che vengono da fuori.

 

Posso riferire un ricordo personale di come Ablondi giocasse questa sua partita con la città per via di un fatto raccontatomi da mio padre, suo amico e coetaneo, che lavorava nella grande raffineria della città. Quando fu proposto al nuovo vescovo di dire messa per i lavoratori dello stabilimento, Ablondi si presentò all’appuntamento come un vescovo aveva tutto il diritto di fare: con belle parole, vestito di quel bel viola vescovile che tutto sommato non era troppo distante dal “rosso” gradito agli operai. Ma pare che non andò bene. Troppa distanza. Dopo, in confidenza, mio padre si prese la briga di dirgli che «se davvero desiderava entrare nelle simpatie di lavoratori, operai, gente lontana dalla fede, forse era meglio essere un po’ meno formali, magari vestirsi più semplicemente…». Non lo fece finire. Ringraziò di cuore e da quella volta nessuno l’ha più visto girare così impaludato.

 

Il resto è storia, sua e della Chiesa. Ablondi entra nella Commissione Cei fino ad assumerne la presidenza. Sono gli anni in cui si realizza – anche grazie a lui – la prima traduzione interconfessionale della Scrittura, con il Nuovo Testamento, e nel1985 l’intera Bibbia. Nel 1976 la consegna a Paolo VI del Nuovo Testamento, insieme al pastore valdese Renzo Bertalot. Nel 1983 nasce la Società biblica in Italia, poi l’Allenza biblica universale. Ablondi è sempre al lavoro, ci crede. Quando nell’85 viene eletto segretario per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei avvengono importanti passi avanti, come l’istituzione della Commissione mista tra Chiesa Cattolica e Chiesa Valdo-metodista.

 

Con la comunità ebraica è un’altra storia di amicizia ritrovata e forte, come personale e profonda è quella che lo lega al rabbino capo di Livorno Elio Toaff. E non è un caso un caso se nel 1989 si arriva all’istituzione della giornata appositamente dedicata alla conoscenza del popolo ebraico, che celebrata ogni 17 gennaio – prima della Settimana di preghiera dell’unità dei cristiani – come dire: inutile fare ecumenismo prescindendo da questo dialogo.

 

Grande e preziosa è stata la collaborazione con il Movimento dei focolari, di cui colse da subito la svolta ecumenica e la caratteristica del dialogo come metodo, che definì «una delle intuizioni più preziose della Lubich».

 

Suo testamento e sua creatura, a cui riservò le sue ultime energie, è stata la creazione del CeDoMEI, il Centro documentazione del Movimento ecumenico italiano. Affidato al prof. Riccardo Burigana, è luogo della memoria storica dell’ecumenismo e di riflessione tra pionieri del dialogo. Inaugurato a Livorno nel 1999, fu presentato all’appena eletto presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che (anche come buon livornese) lo apprezzò molto.

 

Chiudo con alcune parole scritte e lette in occasione del funerale da Claudio Frontera, politico livornese e assessore comunale fin dalla giunta del Sindaco Nannipieri, ai tempi in cui ancora esisteva il Pci. Quando Frontiera si trovò a dover a scrivere un “contributo laico” per il sinodo diocesano su incarico del Sindaco, si chiese se la prospettiva di quel dialogo tra laici e credenti a cui Ablondi teneva tanto sarebbe stata davvero una cosa seria, e non una formalità. «La reazione di Ablondi – dice Frontiera – entusiasta, quasi gioiosa, pronta e forte nei contenuti, mi lasciò stupefatto. La mia riflessione, per quanto autonoma, era povera di fronte alla visione del vescovo, che non aspettava altro per far fare un salto di qualità al rapporto tra la Chiesa livornese e la sua città: un dialogo aperto, a tutto campo, con i giovani, sui valori della politica vera e della comunità locale della nostra città». E conclude dicendosi «preoccupato (…), per una stagione che si chiude, di cui la morte del vescovo Alberto segna la cesura. E anche se i frutti che nascono da persone così ci sono e sono grandi, vanno difesi e sviluppati».

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