L’ultimo rifugio dei Lepcha
Darjeeling, la regina delle colline, come le chiamano da queste parti, anche se siamo a 2.100 metri sul livello del mare, un tempo era la sede delle vacanze degli inglesi, che a maggio scappavano dal caldo malsano ed umido di Calcutta, e che sull’Himalaya si erano costruiti una piccola Inghilterra, con un trenino che in nove ore li portava dalla pianura fin quassù. Oggi, dopo i problematici anni Ottanta, quando una grossa fetta della popolazione lottò per un’indipendenza, piuttosto chimerica, dallo stato del Bengala, è un grosso conglomerato di costruzioni cresciute alla rinfusa attorno alle ultime ville inglesi e in cima alle piantagioni di tè che danno a questa montagne delle tonalità di verde infinito: non ti stancheresti mai di guardarle. Sono arrivato da Gangtok, capitale del Sikkim: tre ore di jeep per strade impervie ma con paesaggi che ti mozzano il fiato per la bellezza che ti stampano negli occhi. Si capisce il fascino che esercitano da sempre soprattutto in coloro che vengono da occidente. Siamo già in aprile, ma il freddo sulla catena himalayana quest’anno sembra non demordere. È ormai il tramonto. Qui il sole cala presto la sera e la vita si spegne. Tanti con questo freddo alle 8 sono gia a letto, salvo riprendere un’altra giornata di lavoro pesante l’indomani alle 5. Con Laban passiamo per le stradine, ormai quasi deserte. Laban è di queste parti, appartiene alla tribù dei lepcha, e ci tiene a raccontarmi la loro storia. Ci infiliamo in una ristorantino locale dove fanno degli ottimi momo, cibo tipico del luogo: una specie di grossi ravioli con ripieno a volte di maiale, altre di agnello o semplicemente di verdure. Si mangiano al vapore e si intingono in una salsa di peperoncino rosso che dà colore al bianco della pasta, ma anche calore alle ossa congelate. La storia che Laban mi racconta sa di favola: è la storia della sua gente, ma soprattutto del Sikkim, lo stato himalayano da dove provengono. “Noi lepcha siamo gli abianti tradizionali del Sikkim. Le altre tribù vennero più tardi, da emigrazioni successive. Il nostro principe una cinquantina di anni fa venne dal Sikkim a fare una vacanza qui a Darjeeling. Con la sua famiglia si fermò al Central Hotel, dove un giorno vide una signora straniera. Cominciò a parlare con quella donna, sorseggiando il famoso tè di queste colline. Qualche anno più tardi, alla morte della sua prima moglie, riuscì a rintracciarla negli Stati Uniti e la sposò”. Ma la favola del principe che sposa la bella straniera finì nel 1975, quando, alla sua morte, il Sikkim da sempre indipendente, venne annesso al- l’India e divenne il ventiduesimo stato dell’Unione Indiana. I momo sono come le ciliegie: uno tira l’altro. Ma anche le storie che mi racconta Laban sono dello stesso tipo. Si parla della sua tribù, del buddhismo, del Tibet. Tutto quassù è affascinante. Da sempre gli occidentali avevano cercato – erano ancora i tempi di Marco Polo – la via per arrivare al Tibet e poi alla Cina. Così queste terre divennero teatro dei vari tentativi per arrivare sul “tetto del mondo”. Si raccontano storie eroiche di missionari cappuccini e delle Missioni estere di Parigi che si inerpicarono su questi monti per entrare in Tibet dove il potere dei Lama significò espulsione o martirio. Il Sikkim è uno degli stati himalayani: si incunea fra Nepal a ovest e Bhutan a est ed arriva a toccare il Tibet a Nord. Sikkim è pure sinonimo di buddhismo, che qui divenne per secoli religione di stato. Furono tre Lama che, nel XVIII secolo, dal Tibet sconfinarono in questa regione e portarono la fede del Buddha alle popolazioni himalayane fino ad allora animiste e sciamane. E furono loro a incoronare un principe locale, riconosciuto dal Dalai Lama di quel tempo che, a conferma della scelta, inviò una sciarpa speciale a significare la sua investitura. Così buddhismo e famiglia reale andarono a braccetto per un secolo e mezzo fino a quando Bhutan e Nepal cominciarono ad invadere le vallate del Sikkim. “Noi lepcha – continua Laban – siamo gente semplice. Lavoriamo sodo, ma i bhutia del Tibet e i nepalesi sono molto più intraprendenti e, diciamolo pure, prepotenti. Le loro invasioni portarono in Sikkim altre culture, sempre himalayane, ovviamente, ma diverse dalla nostra. I nepalesi hanno portato una lingua diversa, che deriva dal sanskrito, con la religione indù. Insegnarono la coltivazione a terazze che ora è presente in tutto lo stato. I bhutia invece hanno introdotto il commercio e una lingua di origine tibetana”. Gli inglesi firmarono diversi tratti con la gente dell’Himalaya, visto che le cose non erano troppo semplici nemmeno per loro. Ne avevano fatto l’esperienza con la terribile guerra che i gurkha ingaggiarono contro la Compagnia delle Indie Orientali. Da allora capirono che era meglio avere i gurkha nei propri reggimenti piuttosto che trovarseli di fronte come nemici. D’altra parte la coesistenza de- gli stati himalayani non era semplice e, anche senza mai averli conquistati di fatto, gli inglesi trovarono una soluzione ottimale: qualsiasi diatriba doveva essere risolta interpellando, come autorità ultima ed inappellabile, la corona britannica. Di fatto il principe non governò mai secondo i canoni dell’amministrazione, ma il suo potere, appoggiato dai Lama, era solido perché assicurarava l’identità della gente e la fedeltà alle radici buddhiste del paese. Il suo palazzo a Gangtok, attuale capitale, è ancora splendido. Lo si vede da uno dei punti più elevati della città e sembra ancora non solo controllare la gente delle vallate, ma restare lì come punto di riferimento per tutti. Ora però è un monastero, con piccoli monaci, che vi imparano le verità che il Buddha ha insegnato secoli orsono e che la gente dell’Himalaya ha adattato alle sue esigenze creando la corrente Vajarana (dei diamanti) che nulla pare avere a che fare con quella Therawada dello Sri Lanka, di Myanmar e della Thailandia e che si scosta anche da quella dell’Estremo Oriente (Mahayana). Il buddhismo di queste parti infatti vuole essere più aperto ai laici, a differenza di quello del Sud Est asiatico, e da secoli si affida a pratiche tantriche per trovare scorciatoie verso il nirvana. Tante cose sono cambiate nelle vallate dell’Himalaya, ma la vita è ancora caratterizzata da una grande pace: qui induismo e buddhismo convivono ed anche il cristianesimo che sta crescendo lentamente ma con regolarità non trova le accuse da cui si deve difendere in altre parti dell’India. Molti lepcha sono diventati cristiani e sono ancora perfettamente accettati dagli altri della propria comunità. Vari dei sacerdoti della diocesi di Darjeeling che copre anche il Sikkim, appartengono a questa tribù ed il vescovo stesso è un lepcha. Mentre Laban parla mi tornano in mente le immagini delle due settimane passate fra i monti del Sikkim. Il risveglio con le cime immacolate del Kanchenjunga, che coi suoi 8 mila sembra stare lì a darti il buon giorno ogni mattina. La sua presenza imponente dà sicurezza alla gente di queste valli che da sempre ha cercato di accattivarsene le simpatie, vedendo in essa la divinità che le protegge. Mi ha colpito la pulizia delle strade, dei villaggi, la gentilizza squisita di questa gente di montagna: poche parole, sorrisi sinceri. Sembra impossibile ma anche quassù è arrivata la società cibernetica: sono riuscito a collegarmi con l’email meglio che in altre parti dell’India. A Gangtok tutti hanno il cellulare ed ai vestiti tradizionali delle tribù himalayane che parlano di colore, grazia ed eleganza si mischiano jeans, magliette, raybans a conferma che nemmeno l’Himalaya coi suoi 8000 metri può fare da baluardo alla globalizzazione. Usciamo dal ristorante. Sono le 8, ma Darjeeling è ormai immersa nel silenzio. Mi ritorna un’immagine, vista a Malli, all’uscita dal Sikkim, nel fondo valle del fiume Teesta. Erano due stranieri che si facevano fotografare con sullo sfondo l’arco in tipico stile tibetano che dà il benvenuto: Welcome to Sikkim. Il fascino di queste valli come porte al mondo misterioso dell’Himalaya e della sua gente è rimasto. Non si può resistere alla tentazione di immortalare il momento in cui si varca una soglia che, anche se non più verso l’ignoto, resta un valico che ti dà l’impressione di entrare in un’altra dimensione della vita e dell’umanità. UNO STATO HIMALAYANO Il Sikkim è lo stato interamente himalayano dell’India (insieme a Tibet, annesso dalla Cina, ed al Nepal e Bhutan che restano stati sovrani). Su una superficie di 7 mila chilometri quadrati è sparsa una popolazione di 400 mila persone che lo rende lo stato indiano con la più bassa densità: solo 57 persone a chilometro quadrato. Gli abitanti fanno parte delle tribù himalayane di razza sino-mongola e le loro lingue sono o di origine sanscrita o tibetana con tracce, secondo alcuni esperti, di elementi che si ricollegano al ceppo germanico e slavo. Il paese vive di agricoltura con sistema di coltivazione a terrazze introdotto dal Tibet da una delle tribù emigrate nel XVI secolo, ma soprattutto di turismo. Nei mesi delle vacanze (maggio e ottobre) è impossibile trovare una stanza a Gangtok, la capitale. Anche se l’identità della popolazione rimane profondamente buddhista (della corrente Vajarana – dei diamanti), la religione maggioritaria è l’induismo, per via delle emigrazioni dal vicino Nepal, favorite dagli inglesi. La presenza cristiana, in crescita costante è nella media nazionale indiana (circa il 2 per cento).