L’ultimo pensiero di Mahler
All’Accademia nazionale di Santa Cecilia di Roma la Sinfonia n. 9 del maestro austriaco
Da vivo, Gustav Mahler non l’ha mai ascoltata. Quando la Sinfonia n. 9 fu eseguita, la prima volta, nel 1912. Il maestro austriaco era morto l’anno prima, stroncato da un infarto. Sentiva prossima la fine quando si isolò in una casetta tra i boschi, sui monti, per comporre questa opera monumentale – un’ora e venti di durata – che rappresenta la sintesi della sua vita, del suo pensiero, di un secolo che muore, l’Ottocento, e di un altro che è appena nato, il XX.
All’Accademia nazionale di Santa Cecilia di Roma Antonio Pappano ha diretto una interpretazione fortemente passionale, lancinante negli scoppi tremendi dell’orchestra, “cattiva” nei guizzi dei legni nel Rondò: una lotta fra luce e tenebre sulla sfondo di una tristezza immensa come il cosmo. Perché cosmica è la dimensione spirituale sottesa alla sinfonia. Mahler, provato nel corpo e nello spirito dalla morte della figlia bambina e dalle difficoltà con la moglie Alma – oltre che dalle incomprensioni con l’Opera viennese per cui lavorava –, è un uomo che ha dentro di sé la “notte” autentica dell’intero Occidente, che riesce ad esprimere più di tutti i musicisti. È legato al passato, all’eredità di Brahms (che muore nel 1897), ma sa che le frontiere aperte da Richard Strauss e ancor più da Schönberg porteranno la musica – e l’uomo – verso una civiltà “altra”, che spezzerà l’armonia.
Da qui, il gusto per le citazioni, per il miscuglio di tempi, per impasti strumentali, il bisogno di un’orchestra gigantesca che contenga ogni possibile strumento per dar vita al fuoco che gli arde dentro e che sussulta gigantesco nel primo tempo e negli altri successivi. Fino all’Adagio conclusivo, dove Mahler finalmente trova pace, e con lui l’umanità. Il “diminuire” della massa orchestrale nell’ultimo tempo è una discesa nel tempio della pace o, se si vuole, un’ascesa in una dimensione di un possibile esito ultraterreno.
Pappano si è avvalso di una orchestra docile, impegnata al massimo per imprimere il suo marchio interpretativo: quello del chiaroscuro, capace di ombre immense e tonanti, come pure di sussurri al limite dell’udibile. Successo grandioso per una esecuzione memorabile.