L’ultimo nemico
Se fossi Pupi Avati, o ancor più Ermanno Olmi, non mi lascerei sfuggire questo romanzo storico (medievale) di taglio nativamente filmico, che ha pochissimi difetti – qualche espressione perfezionabile – e molte virtù, a cominciare dalla profonda competenza dell’autore, medico-scrittore e medievista; soprattutto la grande virtù di non enfatizzare né tantomeno mitizzare il Medioevo crudo e misero-grande nella sua barbarie e altezza spirituale, ferocia e naturalezza, ignoranza e fine cultura. L’autore restringe il linguaggio in notazioni psicologiche e narrative essenziali, appunto “filmiche” che ricordano i racconti cinematografici di Tarkovskij, e procede per itinerari nella storia di un chierico che abbandona l’abbazia di Novacella, in crisi sia di vocazione che di vita, indeciso e imperfetto tra teologia e arte, spiritualità e amori; con l’anima “pesante e complicata” e “la voce che cerca di pregare ma si intoppa nella protesta “. Viaggiando, in “ore camminate come preghiere”, verso Assisi per incontrare Francesco che dà una nuova speranza a quel mondo di sanguinari prepotenti, filosofi dubbiosi, selvaggi o raffinati opportunisti, Reginaldo (è un caso che abbia il nome del monaco a cui Tommaso d’Aquino confidò: “Tutto ciò che ho scritto mi sembra paglia?”) ne vede di tutti i colori: guerre, incendi, sciagure, bassezze, ansietà culturali e spirituali, dissipazioni senza nome e ottusità senza fine; cercando di dimenticare se stesso fino ad avere “la mente come quella di un passero”. Ma non è così facile, neanche allora. Incontra prima, tra gli altri, un contadino muto che lo aiuta a lungo, vero cristiano ignaro di esserlo, poveraccio umiliato e fedele alla vita, poi Riparando, compagno di viaggi esperto per gli anni e asciugato dai dolori, che gli assicura: “(“) c’è più verità in una laude, in un sirventese (“) che in un sermone o nei trattati dei filosofi”. Reginaldo sa già da sé che se vuole trovare la verità deve passare “attraverso i rischi dell’umiliazione e della croce”, ma si chiede: “Perché sono fuggito da me stesso, quando poi ogni giorno incontro il mio passato? “, e inoltre ricorda il viatico di un confratello: “Ci vorranno generazioni, magari altri libri, altri santi, prima che arrivi la stagione che predici tu, quella dell’uomo che tratta con Dio le questioni della libertà e della Grazia “. Ma lui, a differenza dei filosofi meditanti, rompe con i circuiti intellettuali, va, rischia; perché ha capito che “forse, quando una storia per quanto piccola aggiunge qualcosa e Dio sta ad ascoltarla, è allora che il mondo conta, quando c’è questo goccio di speranza sconosciuta”. In un incontro bello e drammatico un gruppo di goliardi gli ripete: “Troverai più verità nelle nostre canzoni che nei trattati dei filosofi. Più religione nei nostri vangeli satirici che nelle prediche di un benedettino. Come c’è più Dio nel Cristo disperato del Getsemani che nel Padre che dirige gli astri su nel cielo”. E aggiungono che “essere uomini è già una disgrazia che chiede da sola misericordia”. Reginaldo, senza cedere ai conforti dei piaceri e del pessimismo, sa fare un vero esame della propria coscienza: “Mi commuove il balbettio di un semplice ma non mi convince un miracolo, della verità scopro gli angoli bui, nel pieno della preghiera mi abbandono ai sogni, ho incontrato personaggi che mi hanno aiutato a salvarmi, ma sto ancora minacciando Dio con la questione del male nel mondo”. E, come una bisaccia riempita vuole deporre questa coscienza ai piedi di Francesco. Arriva ad Assisi, ma trasportatovi morente, perché ha difeso una ragazzina da un lussurioso criminale. E lì, mentre tutti i fallimenti della sua vita si mettono in fila nella luce, incontra proprio Francesco che sta andando alla Porziuncola, e che per un momento considera “quel povero pellegrino ferito, che ha in sorte di passare con me l’agonia e di morire alla mia stessa ora, incontrando le certezze dopo aver camminato così spesso nel dubbio e nella mestizia”. Entrambi stanno vincendo “l’ultimo nemico”.