L’ultimo Michelangelo
Presentato il 30 giugno il restauro della Cappella paolina in Vaticano, iniziato nel 2003. Dolcezza e dolore nella pittura del maestro.
I colori sono quelli del Giudizio, meno aggressivi: spiccano i viola, gli ocra, i verdi. Dal 1543 al 1550 Michelangelo, settantenne, vi lavora, a fatica. Affresca la Crocifissione di san Pietro e la Conversione di san Paolo. Ardore spirituale, tristezza per la perdita delle persone care – fra tutti Vittoria Colonna –, l’ombra di una vecchiaia ansiosa di pace. Le due scene si svolgono in paesaggi astratti, aridi, le persone alternano sbigottimento a riflessione, Pietro che si è disteso sulla croce in diagonale guarda chi entra bruciandolo con gli occhi, Paolo è un gigante accecato: i cardinali, che qui si riunivano per il conclave sino al 1670, avevano di fronte uno spettacolo davvero impegnativo.
L’insieme è una folla in movimento che il pittore blocca per un attimo che sembra eterno. Le espressioni sono le più varie, suscitano una emotività controllata. Gli affreschi erano rovinati, in particolare la Conversione di Paolo aveva risentito dell’umidità – in alto nel gruppo di angeli –, esposta alle intemperie per decenni.
Ovviamente, non è un Michelangelo riportato al primitivo splendore – cosa ormai impossibile – ma a quello che di lui oggi si può vedere, come sottolinea Paolucci, direttore dei Musei vaticani. È già molto. La cappella è stata riportata – togliendo le innovazioni liturgiche di Paolo VI – all’età di Gregorio XIII, la più vicina possibile a Michelangelo e agli affreschi di Sabatini e Zuccari nelle volte, intonati ai colori chiari del Toscano. Sono rimasti alcuni residui della “tradizione”: i chiodi nelle mani di Pietro e il suo perizoma, non autografi, ma aggiunti in seguito. La cappella, da sempre destinata alle liturgie del papa e della sua “famiglia”, resta visitabile solo su prenotazione. www.mv.vatican.va