L’ultimo dei Severi
Thugga (l’odierna Dougga) è uno dei siti archeologici più importanti della Tunisia e di tutto il Nordafrica, nel governatorato di Béja, non lontano dalla capitale. Dal 1997, per l’eccezionale stato di conservazione dei suoi resti punici, numidi e romani, è annoverato nella lista Unesco dei patrimoni mondiali dell’umanità. Tra i monumenti più intatti di questa città, il cui fascino è aumentato dal suo isolamento in uno scenario sconfinato di colline coltivate a uliveti e frutteti, è l’elegante tempio che Marco Aurelio dedicò alla triade capitolina. Soffermiamoci sull’arco di Alessandro Severo, eretto come ringraziamento per i benefici accordati da questo imperatore alla città: un’arcata unica di quattro metri decorata, nelle due facciate, da nicchie che dovevano ospitare statue ormai scomparse. Il monumento, che fungeva da porta cittadina all’ingresso di una strada ricollegantesi a quella tra Cartagine e Tebessa, venne edificato nel 288, l’anno precedente un episodio che si sarebbe rivelato cruciale per le sorti dell’Impero in Oriente: la rivolta che rovesciò l’ultimo imperatore dei parti Artabano V e inaugurò con Ardashir I quella dinastia sasanide destinata ad essere fiera avversaria dei romani fino al VII secolo.
E qui va ricordato che se Roma antica divenne grande, fu grazie al suo esercito. Gli imperatori che seppero conquistarsi l’appoggio di questo formidabile strumento di potere, riuscirono a governare; altri invece finirono tragicamente proprio per mano di quei soldati le cui aspettative avevano deluso. Non bastavano, infatti, i donativi a guadagnarsi il loro favore, occorrevano anche carisma, coraggio e abilità strategica che non tutti possedevano. Fu la mancanza di queste doti, insieme alla tendenza a favorire l’aristocrazia senatoria, ad alienare all’ultimo esponente della dinastia dei Severi, Alessandro, il favore del suo esercito, determinandone la fine ad appena 26 anni, dopo 15 di regno.
Seguiamo la parabola di questo sfortunato imperatore, pacifista in un’epoca che richiedeva energia e lungimiranza a causa della minaccia rappresentata dai persiani e dai germani; un temperamento mite, modesto e rispettoso, che aveva adottato come stile di vita quello sintetizzato nel motto, accolto dagli ebrei o dai cristiani, «Quod tibi fieri non vis, alteri non feceris: Non fare agli altri quel che non vuoi sia fatto a te».
Marco Giulio Bassiano Alessiano (questo il suo nome originario) nacque nel 235 d. C. ad Arca Cesarea (oggi Tell Arqa, nel Nord del Libano) da un funzionario di rango equestre, Marco Giulio Gessio Marciano, e da Giulia Avita Mamea, nipote di Settimio Severo, il primo africano che rivestì la porpora imperiale, facendosi passare come diretto discendente degli Antonini. A questi successe il figlio Caracalla e, dopo il breve intermezzo di Macrino, il sedicenne nipote di Caracalla, Elagabalo. A sua volta Elagabalo adottò l’ancor più giovane cugino Marco, entrato così a far parte della dinastia dei Severi. Alla tragica morte di Elagabalo, inviso ai romani per il dispotismo e le scandalose stranezze, venne eletto imperatore a soli tredici anni Marco Aurelio Alessandro (222 d. C.). Suo braccio destro fu il giurista Ulpiano, da lui scelto come prefetto del pretorio. In realtà, a governare al suo posto fino alla maggiore età furono la madre Mamea e finché visse la nonna materna Giulia Mesa. Fortuna o sfortuna? Da una parte, la politica influenzata da queste donne dotate di acume determinò saggi provvedimenti, ma dall’altra Alessandro crebbe molto dipendente dalla iperprotettiva madre, che smorzò nel figlio ogni istinto bellicoso e arrivò ad allontanare da lui, per gelosia, l’amata sposa Sallustia Orbiana, esiliandola in Libia. Quando il giovane imperatore aprì gli occhi, durante la campagna militare contro i germani che avevano sconfinato nelle province romane dell’Illirico, saccheggiandole, era ormai troppo tardi. Invece di approfittare del momento favorevole per sferrare l’attacco decisivo, Alessandro tentò di trattare la pace col nemico: una mossa che disgustò soprattutto le truppe illiriche, che con la prospettiva di una pace ritenuta non duratura vedevano sfumare il bottino di guerra. Inevitabile la ribellione, che vide acclamato nuovo imperatore Massimino il Trace, un ufficiale di origine barbarica dalle grandi capacità militari.
A nulla erano serviti ad Alessandro gli indiscussi meriti per i quali fu amato dal popolo e dal Senato: aver corretto le aberrazioni introdotte dallo stravagante Elagabalo, epurato la corte, il senato e l’esercito dai corrotti e dagli inetti, facendo valere il merito, alleggerito le tasse, aumentata l’assegnazione di terre ai soldati, foraggiato il popolo di grano a sue spese, posto rimedio allo strozzinaggio, restaurato nell’Urbe edifici religiosi e civili, costruito l’acquedotto Alessandrino che da lui prende nome. A nulla le innovazioni tattiche introdotte per rendere più efficace l’esercito e, malgrado l’assoluta sua inesperienza bellica, i successi riportati nelle campagne sui parti e sui persiani (230-233).
Era il 18 marzo del 235 d. C. quando il giovane imperatore fu assassinato nel suo accampamento a Mogontiacum (Magonza) insieme alla madre che aveva voluto seguirlo in quella infausta spedizione militare. Finiva così nel sangue un governo illuminato e con esso la dinastia dei Severi, dopo circa quarant’anni nei quali era giunto a compimento in tutto l’Impero un grandioso processo di unificazione politica dei suoi abitanti liberi e di integrazione tra i vari popoli del Mediterraneo e dell’Europa (quarantennio oggetto della recente mostra Roma universalis al Palatino, Foro romano e Colosseo). Iniziava un periodo di grande instabilità politica noto come “anarchia militare”. Se il nuovo imperatore Massimino rintuzzò con energia le pressioni barbariche, rivelò ben presto anche l’efferata crudeltà con cui intendeva regnare: motivo per cui, prima di essere assassinato a sua volta a Ravenna donde intendeva marciare su Roma, fece rimpiangere a molti il suo predecessore.
Tra gli altri meriti di Alessandro, vanno riconosciuti il sostegno dato alla letteratura, alle arti e alla scienza, e l’aver evitato di comminare la pena di morte, anche nel caso di colpe gravi, nei processi ai quali aveva presenziato come giudice. A proposito della sua pietas religiosa, si tramanda che nel larario personale venerasse anche le immagini di Gesù e di Abramo, ed è un dato di fatto che sotto il suo regno moderato, il migliore dai tempi di Marco Aurelio, ebrei e cristiani godettero un periodo di pace.
Ignoto è il luogo di sepoltura. Non gli appartiene infatti lo splendido sarcofago decorato con scene del mito di Achille rinvenuto nel mausoleo noto come Monte del Grano, nel quartiere romano del Quadraro; mausoleo in verità degno di un imperatore, essendo terzo per dimensioni dopo quelli di Augusto e di Adriano.