L’ultimo atto di una farsa

Nonostante lo sciopero della fame del deputato Pd Giachetti e i ripetuti solleciti del presidente Napolitano, per convenienza o per noncuranza, i partiti ancora non hanno trovato un accordo per dare agli elettori una vera possibilità di scelta
maroni casini bersani alfano

Andiamo per ordine. Per sollecitare il Parlamento a varare finalmente una nuova legge elettorale – dopo il succedersi di petizioni, campagne di opinione, raccolte di firme, ripetuti appelli del presidente della Repubblica  –  c’è stato addirittura un deputato (Roberto Giachetti, Pd) che si è personalmente impegnato in uno sciopero della fame, condotto nella quasi totale indifferenza dei media. Per 88 giorni ha assunto solo acqua e due cappuccini. Come sempre accade in queste circostanze (Marco Pannella docet), è intervenuto il medico a dire “basta”, per non mettere a repentaglio ulteriormente la sua salute e la sua vita.

Giachetti scrive al capo dello Stato, e il presidente si premura di inviargli una lettera di risposta, che viene resa pubblica. È interessante riportarne integralmente un brano, perché ripercorre le tappe recenti di un iter parlamentare che fotografa impietosamente non solo la reale volontà dei partiti, ma anche l’indice di produttività dei "nostri" (si fa per dire) cosiddetti rappresentanti della nazione (superpagati, superprivilegiati, e, ricordiamocelo, seduti su quegli scranni non perché eletti dai cittadini ma perché nominati dalle segreterie centrali dei propri partiti).

«Ancora di recente – scrive Napolitano – ho ricordato incontrando (con il presidente del Consiglio) i presidenti delle Camere, come già a fine gennaio avessi riferito loro degli incontri da me promossi con gli esponenti dei cinque partiti rappresentati in Parlamento: incontri nel corso dei quali si erano tutti dichiarati convinti della necessità di modificare la legge del 2005. E purtroppo da allora, a dieci mesi di distanza, non si sa se si stia avvicinando la conclusione di questo interminabile braccio di ferro, giuoco degli equivoci, ripetuto alternarsi di opposti irrigidimenti, da cui è stato messo a grave rischio il mantenimento di un impegno assunto da tutte le forze politiche in risposta ad aspettative più che comprensibili diffuse tra i cittadini-elettori. Continuo a ritenere essenziale nell'interesse della nostra vita democratica che quell'impegno e quelle aspettative non vengano traditi».

L’ultima puntata di questa farsa. Si consuma il 5 dicembre, con una ulteriore seduta della Commissione Affari costituzionali del Senato, che fa registrare l’ennesimo flop, inducendo il presidente della Commissione, il senatore Carlo Vizzini (Psi), ad ammettere: «Abbiamo le ore contate, la legislatura sta finendo, o ci riusciamo al più presto o è inutile continuare a parlare di nuova legge elettorale».

Parliamoci chiaro: ormai il disegno è palese (e lo abbiamo espresso più volte in precedenza). Una nuova legge elettorale non la vuole nessuno (o quasi). Né il Pd (che si dice certo di vincere le elezioni, e che, con il Porcellum, avrebbe la maggioranza alla Camera) né il Pdl (che, con il Porcellum, ritiene possibile un pareggio al Senato, per poi puntare a lavorare per un governo di emergenza nazionale, magari ancora a guida Monti).

In ogni caso, dopo dieci mesi di infruttuosi tentativi (giuoco degli equivoci, come l’ha definito Napolitano), non ci attira nemmeno la prospettiva di una "legge pateracchio" (una sorta di  "porcellum 2.0"), varata in zona-cesarini, ad usum delphini.

C’è da tremare al solo pensiero di cosa attenda il nostro Paese allorché "la politica" (questa politica) tornerà a prenderne in mano (legittimamente) le redini dopo la parentesi della "tecnocrazia" (vituperata come vulnus alla democrazia, ma che non vorremmo amaramente rimpiangere).

 

Se rimane la legge attuale. Occorrerà limitare i danni. In che modo? Suggeriamo tre possibili vie da percorrere.

In primo luogo, se resta il Porcellum, considerato il successo delle primarie del centro-sinistra per la scelta del candidato premier (e sperando che si tengano, con altrettanto successo, anche quelle del centro-destra), sarebbe quantomeno auspicabile che vengano promosse nuove consultazioni primarie, all’interno dei vari partiti, anche per la selezione dei candidati al Parlamento da inserire nelle liste.

In secondo luogo, se  il governo varerà il decreto “liste pulite”, ci auguriamo che il Parlamento – se non vuole proprio perderci definitivamente la faccia – lo approvi senza se e senza ma, lasciando fuori dalla prossima assise almeno i condannati con sentenza definitiva.

In terzo luogo, si ponga coraggiosamente mano al ricambio generazionale, non ricandidando più quanti hanno "soggiornato" in Parlamento oltre un numero "decente" di mandati (due al massimo tre legislature). Anche se si tratta di “padri nobili”? A maggior ragione. I partiti sapranno come valorizzarne il patrimonio di maturità ed esperienza, affidando loro incarichi di prestigio all’interno delle rispettive organizzazioni.

Altrimenti? Beh. Supponiamo che i partiti, "costretti" (loro malgrado?) a tornare al voto (per la terza volta) con le liste-bloccate, perseverino nel comporre queste liste inserendovi candidati scelti discrezionalmente e nell’ordine di graduatoria, dalle proprie segreterie centrali. E supponiamo ancora che fra questi candidati continuino a figurare personalità con gravi onerosità nella propria fedina penale. E supponiamo, infine, che in queste liste continuino a trovare posto parlamentari uscenti, anche con sette o più legislature alle spalle. Cosa potrebbe succedere? Che i cittadini-elettori, drizzando la schiena, molto semplicemente decidano di non andare a votare, rifiutando di ratificare scelte eterodirette e lesive della sovranità assegnata loro dalla Costituzione.

Per la serie: «Sono questi che volete? Votateli voi da soli».

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