L’ultimo anno di Mozart

A Roma l’opera del compositore austriaco in un’edizione sotto certi aspetti molto interessante

Cosa è veramente successo al “divino” Amadeus tra il 1790 e il 5 dicembre 1791 anno della sua fine, ancora per certi aspetti non risolta? Certo, molte cose. Difficoltà economiche che nemmeno i fratelli della Massoneria riuscivano a sistemare, morte dell’’imperatore Giuseppe II suo grande estimatore, crisi familiari, smania di divertirsi e ondate malinconiche frequenti. Da questo stato d’animo nascono capolavori come le ultime sinfonie, il Flauto Magico, il Requiem non finito e, prima di loro, l’ultima opera della cosiddetta Trilogia italiana, cioè Così fan tutte o sia La scuola degli amanti. Libretto di Lorenzo da Ponte, avventuriero ebreo fattosi cattolico e poi finito a New York, lo stesso del  Don Giovanni e delle Nozze di Figaro, buon successo il 26 gennaio 1790 all’ Holfburgtheater di  Vienna. Tradotta subito in tedesco, poi censurata da Beethoven e Wagner per supposta immoralità, finita alterata nei dialoghi e solo nel ‘900 riproposta nell’originale nei teatri.

La trama è semplice. Fiordiligi e Isabella, due ragazze ferraresi di stanza a Napoli. Sono fidanzate con i soldati Ferrando e Guglielmo. Innamoratissimi, sicuri della reciproca fedeltà. Ma il vecchio don Alfonso vuole disincantarli e fargli capire che la fedeltà è una illusione. Una scommessa fra i tre e scatta la commedia. I fidanzati fingono di andarsene in guerra, addii piangenti, ma poi si travestono da albanesi amici di don Alfonso ed ecco la trappola, perché i due, con l’aiuto della disinibita serva Despina, riescono a sedurle e a sposarle, salvo rivelarsi all’ultimo momento. Disperazione, terrore, infedeltà riconosciuta. Ma occorre rassegnarsi: è “legge di natura”, così fan tutte (e tutti).

Disincanto, cinismo, liberazione da scrupoli morali. Sembra di assistere a tante vite di coppia che i media e l’attualità ci presentano. Forse per questo motivo il Mozart di quest’opera non è così sorridente e lieve come nelle Nozze né drammatico come in Don Giovanni, ma più sottile, anzi più duro, pur sotto la veste di una scorrevolezza timbrica e melodica bellissime, di una orchestra piena di vita e di un canto spesso ispirato. Spesso, m a non sempre, perché talvolta Mozart sembra rifare Mozart in un gioco di soffice narcisismo dentro la vivacità di una commedia “giocosa”. Fino ad un certo punto, perché la scena della rivelazione dei fidanzati è tragica. Sotto questa partitura in due atti infatti scorre un rivolo di amarezza, di disillusione sull’amore, quasi un abbandono alla triste constatazione della brevità e fragilità dei rapporti. Sono cose che il testo – o i vari sottotesti – dicono, e dice soprattutto la musica, per quanto voglia essere (e lo è in parte) spiritosa, divertente. Irridente.

Per fortuna Mozart è sempre Mozart. Capita così che quando meno te l’aspetti e il testo non lo richiederebbe, egli lascia andare la sua anima in alto ed abbiamo momenti di pura estasi in un brindisi (“E nel mio, nel tuo bicchiero”, atto II), in un addio (“Di scrivermi ogni giorno”, atto I), in un ricordo (“Soave sia il vento”, atto I), dove Mozart apre i l ”divino” che ha in sé,  per poi discendere nella commedia agrodolce della vita. Perché Così fan tutte è questo. Una commedia in agrodolce, che invita a prender le cose come sono, lasciandosi guidare dalla “ragione”. Che però non assicura la felicità, a quanto pare.

A Roma, al Teatro dell’Opera, l’opera è andata in scena in un’edizione sotto certi aspetti molto interessante. In primo luogo la compagnia di canto (primo cast) ben assortita, fatta di giovani cantanti- attori spigliati, voci belle fresche e preparate, divertiti   e divertenti. Un miracolo che abbiano saputo cantare bene arie perigliose, duetti impegnativi, correndo e saltando di continuo in abiti contemporanei secondo la regia ipercinetica di Graham Vick. Il quale ha voluto allestire l’opera in una sola grande aula scolastica guidata dal maestro don Alfonso ( il valido Pietro Spagnoli) con tanto di sedie, banchi, lavagne e così via, insieme alla bidella Despina (una intelligente, simpatica Monica Bacelli). Nell’aula-palco ovviamente ac cadeva di tutto: palloncini, cambio di costumi, accenni di ballo sul ritmo dell’orchestra, un cassone-porta da cui entravano e uscivano i personaggi…   Tanto moto: già l’ouvertura, come la chiamava Mozart, è singolare, perché è un gioco vorticoso di scambi di strumenti su di un solo tema, chiaramente allusivo al dramma. E poi le corse, come si diceva, sul palco. Forse un po’ troppo per voler attualizzare il lavoro mozartiano e farlo spettacolo accattivante? Può essere, ma l’idea di fondo è efficace.

Quanto al lato musicale, cantanti come il tenore raffinato Juan Francisco Gatell (Ferrando), il basso armonioso Vito  Priante (Guglielmo) e le due  sorelle, la luminosa Francesca Dotto e la trepida Chiara Amarù, sono stati divertenti e completi.  Sulla direzione orchestrale di Speranza Scappucci è da dire che si avverte la cura precisa dei dettagli, la capacità di accompagnare i cantanti, il gesto eloquente, la foga passionale. Una valida professionista. Purtroppo, l’orchestra non l’ha sempre seguita, risultando un suono talora pesante e privo di trasparenza (i violini). Si avverte la necessità di un direttore stabile.

Per il resto un allestimento gradevole, specie per i numerosi giovani che affollavano il teatro romano.

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