L’ultimo abbraccio della montagna

Pareti inespugnabili, sfide audaci. Il perché di un grande scalatore, Karl Unterkircher.
Karl Unterkircher

«Siamo nati e un giorno moriremo. In mezzo c’è la vita. Io la chiamo il mistero, del quale nessuno di noi ha la chiave. Siamo nelle mani di Dio: se ci chiama dobbiamo andare. Sono cosciente che l’opinione pubblica non è del mio parere, poiché se veramente non dovessimo più ritornare, sarebbero in tanti a dire: “Cosa sono andati a cercare là? Ma chi glielo ha fatto fare?”. Una sola cosa è certa, chi non vive la montagna, non lo saprà mai! La montagna chiama!».

Sono le ultime parole scritte da un uomo che, nella vita, cercava vie esclusive (Silke Unterkircher, L’ultimo abbraccio della montagna, Rizzoli).I sognatori e i bambini sanno dare forma alle nuvole. Karl Unterkircher era uno di quegli alpinisti che sanno intuire, dove altri non vedono nulla, disegni ed ombre persi tra le pieghe d’immobili rocce e ne fanno la traccia per la loro impresa.

Karl, infatti, entrato nella storia dell’alpinismo per aver scalato, senza ossigeno, Everest e K2 in meno di due mesi, non cercava i record, non aveva alcun interesse a collezionare tutti gli 8000. Le sue imprese sono state altre. Unterkircher amava sbrogliare i “problemi” non ancora risolti delle grandi pareti del mondo: il versante nord del Genyen, 6240 metri, in Cina; lo spigolo sud del Jasemba, 7350 metri, al confine tra Nepal e Tibet; la parete nord del Gasherbrum II (8035 metri). Tutte vie dove nessuno prima era mai riuscito.

Anche per la sua ultima impresa aveva scelto un percorso inviolato: del già infernale Nanga Parbat, la “montagna assassina” (duecento hanno tentato di scalarla, oltre sessanta non sono tornati) aveva adocchiato da tempo la terribile parete Rakhiot. Il 15 luglio 2008, una slavina, mentre guidava i compagni, Nones e Kehrer, lo ha sepolto lì, per sempre, in un crepaccio.

Cosa ha portato Karl e la sua cordata a sfidare quelle pareti inespugnabili? Cosa spinge un uomo a cercare una sfida così audace? Amava ripetere una frase del Dalai Lama che gli era di guida: «Vivere in modo giusto e sereno è possibile solamente se siamo consapevoli che prima o poi moriremo».

In questo tributo appassionato al compagno di una vita, al padre dei suoi tre figli, Silke ci restituisce il ritratto di un uomo legato indissolubilmente a quel mondo che amava perché era la sua stessa vita. Ci aiuta a capire che spesso dietro scelte così rischiose non si nasconde un desiderio di affermazione. Come diceva Karl, non sono gli scalatori a cercare il rischio: è la montagna che chiama. E Karl era un uomo che, nella vita, cercava la vetta più alta.
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