L’ultima meta del grande Jonah Lomu
Jonah Lomu si è fermato: almeno questa volta, il placcaggio su di lui di questa vita è riuscito, definitivamente. Nella mattinata di mercoledì 18 novembre il mondo del rugby e dello sport mondiale hanno salutato in lutto il leggendario gigante degli All Blacks neozelandesi, di cui egli stesso fu uno dei più conosciuti costruttori delle straordinarie gesta. Scomparso all’età di 40 anni nella sua casa di Auckland, Lomu è probabilmente ancora oggi considerato il più grande simbolo di eccellenza di questo sport, una sorta di monumento mitico per ogni rugbista e non solo. Da tempo sofferente di una rara e grave forma di sindrome nefrosica, un improvviso aggravamento delle condizioni di salute ha arrestato precocemente la sua corsa terrena.
Immaginate un atleta di 1,96 metri per 119 kg correre i 100 metri piani in 11 secondi: praticamente una montagna in corsa, inarrestabile, portentosa forza della natura, capace di travolgere avversari su avversari in ognuno dei più grandi teatri del rugby mondiale. Semplicemente, “strapotentenemente” Lomu: «Se l'avversario non mi lascia nessun’altra opzione, io ci passo sopra», dichiarò in un’intervista rilasciata a un quotidiano del suo Paese, nel 1997. Numero 11 inconfondibile sulla maglia dei mitici All Blacks neozelandesi, con i quali inanellò 37 mete in 73 partite, Lomu sprigionava in campo una potenza devastante, “implacabile ed implaccabile”, per meglio dire.
Una leggenda, quella di Siona Tali 'Jonah' Lomu, cominciata durante i mondiali di rugby del 1995 in Sudafrica, quando quell’enorme ventenne di origine tongana stupì il mondo dello sport con il primato di mete nelle World Cup, ben 15, eguagliato, il mese scorso da Brian Habana. Celebri in particolare due scorci storici di quella rassegna: la sua marcatura contro l'Inghilterra, superando Underwood, Carling e poi letteralmente scavalcando l'estremo Catt scolpì la storia del rugby in 30 secondi, poi impreziosita dalla meravigliosa vittoria in finale dei sorprendenti padroni di casa del Sudafrica, proprio contro i portentosi neozelandesi di Lomu, cui proprio prima della partita Nelson Mandela in persona volle stringere la mano confidandogli di «avere un po’ paura di lui».
Paura, un concetto che il gigante Jonah aveva conosciuto e affrontato da bambino, talmente da vicino da non temere poi le complesse implicazioni cui lo aveva costretto la malattia: «Devi sempre cercare di restare positivo, sorridente – diceva – perché questa malattia cerca di distruggerti poco alla volta. Ogni paziente che si sottopone a una dialisi è diverso, ma tutti sappiamo di non avere altra scelta. L'alternativa è una sola: devi stare su col morale. Voglio insegnare ai miei figli che non c'è niente di facile, in questa vita, e che devi lavorare duro. Sempre. Non si devono arrendere, perché io non mi arrenderò. Mai». In effetti, pochi avrebbero sospettato una fine così rapida dopo averlo visto in pubblico nel corso dell'ultima Coppa del Mondo, vinta proprio dagli All Blacks: durante la competizione, terminata 20 giorni fa, era stato ritratto in un selfie e nell'improvvisazione della celebre Haka, tradizionale danza maori che i rugbisti neozelandesi eseguono prima di ogni partita.
Forte, fortissimo, ma dai modi dolci e dallo sguardo malinconico, Lomu era nato il 12 maggio 1975 da genitori tongani, crescendo in un’emarginata periferia di Auckland, in cui assistette alla barbara uccisione di uno zio con un machete. A dare inizio allo sviluppo del suo straordinario talento rugbistico era stata la squadra del Wesley College, istituto anglicano dove il suo nome, Siona, fu cambiato in Jonah, presto capitano. Convocato nella nazionale neozelandese a sette per i vittoriosi Hong Kong Sevens del ‘94, esordì nello stesso anno nel Campionato nazionale provinciale neozelandese e, con con pochissimi incontri ufficiali di club alle sue spalle, convocato per gli All Blacks, divenendo a 19 anni il più giovane debuttante. Se Auckland Blues, Chiefs e Hurricanes sono i club con cui ha giocato in patria, proprio nel ’95 avvertì i primi sintomi della malattia, arrivando comunque nel 2005 a giocare in Europa una stagione con i gallesi del Cardiff Blues e poi a Marsiglia, in Francia, da dilettante.
Già nel 2004 si era sottoposto all’operazione di trapianto, grazie alla donazione di un rene da parte del suo amico e speaker radiofonico Grant Kereama. Dopo il ritiro definitivo del 2007, le condizioni di Jonah Lomu erano peggiorate progressivamente, ma l’ipotesi di un nuovo trapianto di rene era sfumata per incompatibilità di altri donatori. All’ultimo placcaggio di un arresto cardiaco, neanche l’irrefrenabile Lomu ha resistito: ci avevano provato in tanti, addirittura ben quattro insieme (chiedere ai francesi di un epico scontro passato alla storia, per credere) a buttarlo giù. Anche le montagne franano, ma alcune di queste rimangono immortali, nelle più belle mappe della storia: arrivederci Jonah, alla prossima meta.