L’ultima icona del cinema italiano

Scompare Bernardo Bertolucci, regista di fama internazionale, spesso al centro di polemiche per i suoi film

Anche Bernardo Bertolucci ci ha lasciato, dopo lunga malattia, a 77anni. Poeta, regista, documentarista, sceneggiatore, l’intellettuale di Parma, nato vicino alla casa di Verdi il 16 marzo 1941 dal poeta Attilio e fratello del regista Giuseppe, è l’ultimo grande autore italiano di fama internazionale. Cresciuto in un ambiente culturale straordinario e orientato “a sinistra” – Moravia, Pasolini, Elsa Morante –, poeta e regista già a vent’anni, Bertolucci non è un autore prolifico: 17 in tutto i suoi film.

Ma ciascuno ha qualcosa da dire perché Bertolucci fin dalla Commare secca (1962), pasoliniana storia di periferia, si manifesta come una personalità stagliata, attenta ai passaggi sociali e individuali dell’uomo del secondo ‘900, di cui percorre tutte le tappe con uno stile narrativo ed uno scandaglio psicologico capace di passare dai grandi affreschi storici ai drammi più intimi, dalle vicende politiche a quelle più personali. Senza paura di passaggi estremi e disturbanti.

Freud e Marx, la Nouvelle Vague ed Hollywood, ma anche Verdi sono personaggi e forme a cui egli è attento, rimescolandole secondo i diversi momenti della carriera, ma sempre fedele al substrato fondamentale della sua arte: la ricerca sull’uomo, anche esasperata, nel duello tra vita-morte. Tra fisicità ricercata e accenni a una possibile spiritualità, dal buddismo a qualcosa di vago e misterioso.

Si può allora forse comprendere il suo itinerario. Dopo Partner (1968) è la volta de Il Conformista (1970) dal romanzo di Moravia, tipica storia dell’età fascista dove pubblico e privato si intrecciano con la politica – topos caratteristico di Bertolucci – con due intensi Stefania Sandrelli e Jean-Louis Trintignant.

Segue nel ’72 il film dello “scandalo”, condannato e poi assolto, Ultimo tango a Parigi, con Marlon Brando, una storia di liberazione sessuale estrema, di taglio freudiano, e l’epico Novecento in due atti (1976): un grand-opèra verdiano in salsa padana con un cast superlativo (Robert de Niro, Burt Lancaster): kolossal di 45 anni di storia italiana da fine ‘800 al Fascismo alla Resistenza, imperniato sullo scontro fra due amici/nemici, il ricco e il proletario, visti con occhio “comunista”. Film imponente.

Poco capiti i due successivi lavori La luna (1979) e La tragedia di un uomo ridicolo (1981), storie più sul personale, mentre sono ben 9 gli Oscar per L’ultimo imperatore (1987), kolossal sull’ultimo sovrano cinese – girato a Pechino –, narrazione sui cambiamenti operati dalla rivoluzione comunista: film folgorante, lussuoso, un affresco visivo impressionante.

Immagini seducenti anche nel successivo Il tè nel deserto (1990), che però segna un processo estetizzante forse eccessivo nelle storia turistica, in Marocco, di una coppia. Sempre perfetto anche Il piccolo Buddha (1993), nel rievocare la vicenda del principe Siddharta, eppure non convincente del tutto, perché rimane in superficie: ottimo esempio di rievocazione spettacolare.

Bertolucci sente il bisogno di uscire dai kolossal e tornare a realtà più intime, più giovanili. Ecco allora Io ballo da sola (1996) educazione sentimentale di un ragazza americana in terra toscana; L’assedio (1998), storia di un pianista innamorato della colf africana; The dreamers (2003) rivisitazione autobiografica (?) del’68 parigino attraverso tre giovani, un manifesto di libertà sessuale, materiale e spirituale.

Ed infine Io e te (2012), storia di un adolescente che si chiude in cantina, scoperto dalla sorellastra che ama e odia, ma finendo con l’aprire gli occhi alla vita. Questo piccolo inno all’esistenza è l’ultimo, lineare, semplice e profondo messaggio di Bertolucci, libero da ideologie, e aperto a qualcosa che non sia solo materiale, un orizzonte piatto e intricato come sovente nei suoi lavori. Uno spiraglio in più?

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