Lula, i poveri, le elezioni
Il Brasile visto dall’Argentina: un Paese che ha coniugato sviluppo e giustizia. Le presidenziali non potranno modificare la sua felice formula. Da Buenos Aires, il nostro corrispondente.
Con tutta probabilità, chi vive in Brasile scriverebbe in altro modo. Ed é logico che, anche per i processi politici, se si vivono da vicino, si apprezzano sfumature e dettagli che da lontano sfuggono. Ma è anche vero che la visione che si ricava osservando i fenomeni dal di fuori, nel mio caso dalla vicina Argentina, consente di cogliere meglio le tendenze di tale processo, non foss’altro che sul piano “macro”.
Chi osserva oggi, e con un po’ di attenzione, l’ottava potenza economica del pianeta, non può che riflettere su una cosa: quand’anche il prossimo ballottaggio dovesse portare ad un cambiamento di governo e alla fine della gestione del Pt di Inacio Lula da Silva, difficilmente ciò potrà cambiare aspetti sostanziali della realtà del Brasile. Prima di tutto, perché le radici del suo processo di sviluppo, che la gestione di Lula ha senz’altro portato a maggiore compimento, sono saldamente inserite nella storia degli ultimi 50 anni di questo paese, almeno a partire dal processo messo in moto tra gli anni Cinquanta e Sessanta da Juscelino Kubitschek.
Il Brasile ha continuato durante questi decenni, in modo forse non sempre nitido e con le normali contraddizioni (e chi non le ha scagli la prima pietra, a cominciare dai 40 milioni di poveri che vivono negli Usa, la prima potenza economica), un processo di sviluppo che l’ha portato ad essere un Paese affidabile. Tale continuità non bisogna darla tuttavia per scontata. Perché un tale processo lo iniziarono insieme sia il Brasile che l’Argentina durante la stagione di leader lungimiranti, fautori di uno sviluppo equilibrato che non cedeva alla tentazione della cieca fiducia nel mercato. A differenza del Brasile, in Argentina tale stagione, di cui ne era esempio il presidente Arturo Frondizi, ebbe breve durata, per poi entrare in una fase di stanca dalla quale ancora non è uscita, basti osservare il suo debito estero, seguito dalla debacle del 2002, ed oggi lo stallo istituzionale in un pericoloso clima di conflitto permanente.
Non è dunque casuale che a maggio, in un documento firmato dal presidente Obama, si sia riconosciuto il ruolo di leader del Brasile nel contesto della regione latinoamericana. È stato inoltre annunciato che Washington e Brasilia lavoreranno gomito a gomito in vari consessi internazionali. Non si tratta di un riconoscimento qualsiasi. La Casa Bianca non è solita assegnare il ruolo di “partner autorevoli” solo per una questione di gentilezza. Ed è suggestivo notare che tale considerazione non risponde alla docilità brasiliana di fronte alla politica di Washington. Brasilia è stata abilissima a far naufragare il sogno di un mercato libero americano dall’Alaska alla Terra del Fuoco, senza arrivare mai a rotture diplomatiche.
Lula, inoltre, ha portato avanti un negoziato sul programma nucleare dell’Iran che ha oscurato la capacità diplomatica della Casa Bianca. Ed è inoltre chiara la presenza del Brasile nello schema del G20, che propone un’alternativa all’attuale ordine economico mondiale.
La novità della gestione di questi ultimi otto anni consiste nella decisiva scommessa di far fronte dal “debito interno”, mettendo in moto una politica sociale inclusiva, che ha permesso di riscattare dalla povertà milioni di brasiliani e di consolidare – fatto abbastanza poco frequente nella regione durante gli ultimi decenni – la classe media, mentre sia l’industria nazionale, sia gli investimenti provenienti dall’estero trovavano nella realtà economica del Paese un contesto favorevole. No, non credo che il risultato di queste elezioni possano modifichiate tale schema, che oggi è una delle principali virtù del Brasile.