Luila tessitrice in Malesia
L’isola di Penang è una delle più note della Malesia, anche se non la più bella. Indubbiamente la più interessante, per la sua storia coloniale, ma anche per il suo presente malese. Teluk Bahang dista una ventina di chilometri da Georgetown, il capoluogo, sulla costa settentrionale. Di solito viene oscurata non solo dal capoluogo, ma anche dalla vicina Batu Ferringhi, stazione balneare in crescita esponenziale per via del turismo estero, che continua a venir qui nonostante la costa sia stata spazzata nel 2004 da uno tsunami. Eppure Teluk Bahang ha le sue carte da giocare. Innanzitutto la posizione protetta sul golfo omonimo, che la rende graziosa e adatta ai bagni tranquilli delle famiglie. È poi la porta d’ingresso di una riserva forestale forse poco decantata, ma straordinaria perché in fondo veramente vergine, di nome Pantai Aceh. Lì si respira, si odora, si tocca, si vede, si sente la vita della foresta, umida e rumorosa, grassa e silenziosa, e tutto quanto d’altro si possa immaginare.
Oltre alla riserva naturale e al porto, c’è dell’altro a Teluk Bahang, come la tradizione dell’industria tessile del batik, o piuttosto dell’artigianato di questa produzione tessile. In un laboratorio sommario, all’aria aperta, una dozzina di uomini e donne sono indaffarati sui loro telai nelle diverse fasi della lavorazione. Sono buddhisti, taoisti, cristiani e musulmani, me ne accorgo dall’abbigliamento e dagli accessori. Una donna, con l’hijab, non si scompone: «Qui ci si rispetta, il venerdì posso andare in moschea. E in questo periodo di Ramadan mi hanno dato i compiti più leggeri». Una sua collega buddhista annuisce: «Lei è la mia migliore amica, ha una fede forte che io non ho». «Ma lei – interviene di nuovo l’islamica – è più servizievole della sottoscritta!». Georges è invece cristiano, episcopaliano: «Io ero musulmano ma ho capito che Cristo è morto anche per me. Così da quel giorno porto la mia croce al petto e ho ricevuto solo segni di rispetto». «I tuoi non hanno protestato per la conversione?», chiedo a mia volta. «Sì, e hanno fatto di tutto per convincermi a non abbandonare l’Islam. Ma poi si sono arresi, ed anzi due familiari mi hanno seguito».
Colei che funge da padrona è, guarda caso, cinese e musulmana. Si chiama Luila: «Siamo tutti uguali – mi dice –, perché farci la guerra, perché pensare che la mia fede è migliore della tua, perché credere che la violenza è meglio dell’amore? Io me ne faccio un vanto di aver aperto la mia officina a fedeli di religioni spesso contrapposte. Mi faccio un vanto di festeggiare nel nostro atelier le feste di tutte le religioni. E mi faccio vanto di aiutare il culto di tutte queste religioni, aumentando il salario dei miei impiegati perché possano disporre di qualcosa per i loro culti». Sic et simpliciter. È ancora Liula che mi accompagna al Giardino delle orchidee. Arriviamo, tutto è abbandonato. Nei vasi c’è solo del verde. Ma due virgulti hanno “creato” nuovi boccioli, bianchi-gialli e rosa-gialli. Forse non li avrei apprezzati così se confusi tra cento e cento fiori simili. Invece, così, sono i più bei fiori del mondo. A Teluk Bahang.