Luci e ombre per i nuovi cibi
Il dibattito è vivace ma a livello sociale prevale piuttosto la curiosità. In realtà è un tema complesso, attiene sia alla disponibilità alimentare per una popolazione in costante crescita che alla sostenibilità ambientale del cibo. «L’alimentazione – ha commentato Valerio Gualerzi su National Geographic – sembra essere arrivata sulla soglia di una profonda rivoluzione. A farci varcare la porta, insieme al diffondersi di nuove tecnologie, saranno la crisi ambientale e il boom demografico che ha appena raggiunto gli otto miliardi di abitanti».
I novel food, i nuovi alimenti da molti sono considerati una possibile soluzione, da altri, invece, un profondo cambiamento nelle abitudini alimentari. Il governo Meloni, lo scorso marzo, ha varato un disegno di legge con cui propone di vietare la produzione e la commercializzazione dei nuovi alimenti, a tutela della salute dei cittadini e per la salvaguardia della cultura agroalimentare italiana.
La Fao, nel rapporto Thinking about the future of food safety. A foresight report del 2022, sostiene che, entro il 2050, la «produzione alimentare complessiva dovrà essere aumentata di circa il 70 per cento rispetto ai livelli del 2009». Occorreranno, quindi, nuove fonti alimentari. In pole position insetti, alghe, meduse, alternative vegetali e alimenti ‘sintetici’, basati su cellule.
Il consumo di larve di insetti è attestato in Africa, Cina e America Latina fin dal XVI secolo. Grilli, cavallette, mosche domestiche, vermi della farina hanno proteine, fibre alimentari, acidi grassi, micronutrienti e possono rappresentare una vera alternativa commerciale. L’agenzia europea per la sicurezza alimentare ha già autorizzato l’impiego di grilli per la produzione di farine alimentari.
Tuttavia, possono esserci problemi di sicurezza. Occorre approfondire la patogenicità del loro microbiota, i rischi legati a pesticidi, antimicrobici e all’accumulo di metalli pesanti. «I rischi associati agli insetti commestibili – spiega il rapporto della Fao – dipendono dalle specie di insetti, dai substrati o dai mangimi utilizzati, dal modo in cui vengono allevati, raccolti, lavorati, immagazzinati e trasportati».
Meglio accettate sul piano psicologico sono le alghe. Esse hanno effetti ambientali positivi nel sequestro di anidride carbonica, nel mantenimento di habitat marini, nella prevenzione dell’eutrofizzazione e nella riduzione degli inquinanti e un mercato interessante. Secondo la Fao, la raccolta globale delle alghe vale circa 5,6 miliardi di dollari, la cui quota maggiore è costituita dal consumo umano. I maggiori produttori a livello mondiale sono la Cina e l’Indonesia. Insieme producono l’87 per cento. Le alghe, benché povere di proteine, assicurano un apporto di minerali, acidi grassi omega 3 e fibre alimentari.
Accanto alle alghe anche le meduse potrebbero avere un ruolo nell’alimentazione. Le specie commestibili non sono molte, ma hanno un alto contenuto di proteine e sono povere in carboidrati e lipidi. La loro fioritura abnorme, anche se discontinua, costituisce un problema per la pesca e l’acquacoltura.
Più note perché già presenti sul mercato sono le alternative vegetali. Innanzitutto cibi freschi (frutta, verdura, semi, legumi, cereali integrali…), ma anche prodotti lavorati: bevande a base vegetale, carne ‘planted based’. Sebbene sul piano nutrizionale non siano equivalenti ai prodotti di origine animale, le alternative vegetali, secondo uno studio di metabolomica, possono essere alimenti complementari.
Più delicati sono i problemi relativi alla sicurezza alimentare. Preoccupano soprattutto le micotossine, per la loro persistenza anche nei prodotti finali, i fitoestrogeni che possono influenzare il sistema endocrino e alcuni componenti naturali dei legumi che possono interferire con la biodisponibilità di nutrienti chiave.
Infine gli alimenti basati su cellule. Qui la tecnologia la fa da padrona. La carne si ottiene, infatti, per coltivazione in bioreattori di cellule muscolari animali o partendo da cellule staminali pluripotenti indotte. Minor uso di suolo, di acqua, di antibiotici, maggior controllo dei processi con conseguente abbattimento dei rischi, ma un bilancio energetico assai sfavorevole. Uno studio dell’Università della California sostiene che la coltivazione di carne produce una quantità di anidride carbonica da 4 a 25 volte maggiore.
I novel food al momento mostrano luci e ombre difficilmente quantificabili. Gli alti costi di produzione richiedono investimenti importanti, non certo nelle disponibilità dei Paesi poveri. Sarà cibo per ricchi? Il rischio c’è.
Non bisogna dimenticare, tuttavia, che ogni anno, a livello mondiale, si buttano circa 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, pari a 400 miliardi di dollari e all’8 per cento delle emissioni globali di gas serra. Una ricchezza sicuramente da recuperare ancor prima di lanciarsi nel nuovo. Lo impongono ragioni etiche ma anche ambientali.
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