L’Ubuntu e il valore della comunità

Justus Mbae, decano all’università Cattolica dell’Africa dell’Est a Nairobi, ci spiega questo tratto fondamentale della cultura africana: «Una persona diventa tale solo attraverso gli altri». Dalla nostra inviata a Nairobi
Il professor Justus Mbae

Ha studiato filosofia in Grecia, il professor Justus Mbae, decano all’università Cattolica dell’Africa dell’Est a Nairobi. Ricorda il periodo europeo come cruciale per i suoi studi, ma anche sorprendente per il grande valore attribuito alla persona, alla sua libertà, senza adeguato corrispettivo per i doveri verso la propria comunità. Sarebbe stato facile restare in Europa e approfondire i suoi studi, ma aveva un dovere verso la gente che lo aveva fatto crescere, gli aveva consentito di essere ciò che era diventato: la realizzazione personale non poteva escluderli o metterli da parte. Doveva tornare in Kenya e restituire al suo Paese quanto ricevuto. L’Ubuntu, nella cultura africana, è anche questo. Il professor Mbae ha tenuto un pomeriggio di approfondimento ai giovani del Movimento dei Focolari che attorno a questo cardine della vita delle comunità africane hanno voluto incentrare il progetto “Sharing with Africa”, che si sta svolgendo nei pressi di Nairobi. Sorriso aperto, abbraccio accogliente, c’è poco di accademico nel suo modo di rispondere alle domande degli interlocutori e di approcciarsi con i curiosi. Riesce a trasmettere un bagaglio culturale di secoli in maniera appassionante. Non guarda mai l’orologio mentre risponde alle nostre domande, nonostante siano le 20 e il dibattito abbia sforato i tempi canonici. 

Professor Mbae che cosa è l’Ubuntu?
«È un elemento fondamentale della cultura dei popoli africani. È un modo di vivere e di concepire la persona in relazione alla comunità, che ha un ruolo centrale nell’esistenza del singolo. Ogni situazione o cosa che ci riguarda personalmente viene dopo la comunità, perché l’individuo è parte di essa ed è attraverso la relazione con le altre persone che la compongono che lui diventa una persona. Il vero significato dell’Ubuntu è che una persona diventa persona solo attraverso gli altri. Io, Justus, non sono nessuno senza gli altri. Questa concezione è la chiave per comprendere che la famiglia umana è davvero una sola cosa».

Quale contributo può dare questa concezione ad un mondo in corsa dove l’io prevale sul noi?
«L’Ubuntu ci ricorda che il vero significato dell’esistenza è la gioia di vivere. Ci spiega che i fondamenti più importanti della vita non sono le cose materiali, ciò che possediamo, ma come ci relazioniamo con gli altri. Penso che l’Ubunto ricorda a tutte le culture l’importanza delle relazioni umane e questa è la sua missione fondamentale. Ci insegna che tutti siamo uguali, abbiamo un legame unico anche se di diverse tribù o provenienze. Ci spinge a comportarci secondo questo ideale perché non esistono ragioni fondate alle divisioni tra gli uomini».

I valori che racchiude l’Ubuntu come possono aiutare le altre culture?
«I valori non sono esclusivi dell’Africa. L’amore, la giustizia, l’ospitalità, il prendersi cura, il sentirsi fratelli, ogni cultura li possiede già al suo interno. L’Ubuntu è la passione con cui questi valori possono essere realizzati. Non è tanto una filosofia o un pensiero, ma è una prassi che può trasferirsi nel quotidiano dell’esistenza. L’Ubuntu è il seme di una scelta, è l’impegno del singolo nell’incarnare un ideale e quando diventa di tanti allora è possibile vedere l’unità della comunità e del mondo».

L’Africa non è esente dai processi di globalizzazione e dalla crisi dei valori tradizionali. Come sta reagendo a queste sfide?
«Per prima cosa vorrei precisare che l’Africa fatica a comprendere sé stessa e fatica a farsi comprendere. Se il mondo globalizzato valuta l’Africa per il suo sviluppo economico o tecnologico, allora questo continente si taglia fuori in partenza. Ma la vita non è fatta solo di processi economici o tecnologici: c’è anche altro. Noi africani non possiamo competere con il resto del mondo sui progressi economici, finanziari o tecnologici, ma possiamo dare un contributo educando ai valori. Questo, io penso, è il nostro specifico campo d’azione e questo è il vero tesoro e il vero contributo che l’Africa può dare ad un mondo dove ad esempio l’anziano è scartato, ma qui è circondato di rispetto per la sua esperienza. O ancora sul ruolo educante della comunità nei confronti di un bambino o sull’importanza del prendersi cura di chi è malato e magari non può svolgere un lavoro e assicurare il mantenimento della famiglia. La comunità dove si vive gli uni per gli altri è una risposta all’individualismo».

La platea di oggi era fatta di tanti giovani. Avrebbe da offrire un consiglio?
«Sono particolarmente toccato da questi giovani. Nairobi, in questi giorni, sta ospitando un bozzetto di mondo, perché questi ragazzi vengono davvero da tante nazioni ed è la prima volta che mi trovo davanti ad una platea di persone convinte, che sanno cosa vogliono, decise a realizzare l’ideale della fraternità. Noi adulti non ci siamo troppo preoccupati di cambiare il mondo, loro invece vogliono conoscere le tradizioni antiche, vogliono capire il passato perché il cambiamento del presente sia davvero efficace e hanno fatto una seria scelta per la pace. Quando vedo i giovani io vedo la speranza. Il mio augurio è di non scoraggiarsi anche se sono consapevole che non sia facile cambiare le cose in modo corretto. Ma non esistono ragioni per smettere di farlo. Ogni passo in avanti compiuto rende il cammino davanti a noi più facile. Bisogna non guardarsi indietro, essere orgogliosi delle scelte fatte e puntare dritto gli occhi sulla mèta dell’unità della famiglia umana».

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