L’ubriacone e la piccola santa

Nei luoghi di Parigi dove Olmi ha girato uno dei suoi capolavori: “La leggenda del santo bevitore”
chiesa di Sainte-Marie des Batignolles a Parigi (Francia)

Questa volta si va a scoprire Parigi. Non quella delle cartoline, dei grandi boulevards, della Tour Eiffel o degli Champs-Elysées, ma la Parigi più dimessa dei quartieri periferici, popolata di barboni, emarginati, sottoproletari. Una Parigi po’ fuori dal tempo, da sogno e forse più affascinante, come ce l’ha mostrata un poeta come Ermanno Olmi nel suo film La leggenda del santo bevitore, tratto dall’omonimo racconto di Joseph Roth. Il percorso che ci attende parte da uno dei tanti ponti sulla Senna, prosegue fra case anonime, sordide locande, modesti hotel e bistrot (questi soprattutto!) e termina nella chiesa di Sainte-Marie des Batignolles.

All’apparire, nel 1988, di quest’opera cinematografica (verrà insignita del Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia di quell’anno), molti hanno gridato al capolavoro, qualcuno ha confessato di essersi annoiato a morte per il ritmo lento, decisamente agli antipodi dello stile hollywoodiano. Comunque sia, Olmi – che qui ha raggiunto una delle vette della sua arte di regista – si è mantenuto fedele allo spirito del racconto dello scrittore austriaco, morto alcolizzato proprio come il suo protagonista. Piuttosto lo ha arricchito con alcune geniali sequenze di densa umanità e ne ha intensificato il messaggio spirituale conferendogli una veste di bellezza.

La trama in breve. Andreas Kartak, ex minatore d’origine polacca alcolizzato (magnificamente interpretato dall’attore olandese Rutger Hauer), conduce vita randagia dormendo sotto i ponti del Lungosenna, protetto da fogli di giornale. Un mattino viene avvicinato da un distinto signore che lo prega di accettare 200 franchi da restituire come offerta a santa Teresa di Lisieux, la cui statua si trova nella chiesa summenzionata. Andreas, che ha un forte senso dell’onore, accetta e promette di farlo appena ne sarà in grado, dopo la messa domenicale. Inizia così il suo vagabondare punteggiato da piccoli “miracoli”, come quando – in maniera del tutto imprevista – gli capitano tra le mani somme per lui favolose… e puntualmente spese per proprie necessità, avventure sentimentali e abbondanti sbronze! Lungo tutto il film assistiamo ai suoi ripetuti tentativi per assolvere l’incarico, sempre però mandati a vuoto da circostanze e incontri fortuiti. Come a dire: la piccola Teresa può aspettare, più importante è vivere intensamente quello che la vita ti offre.

In una delle scene finali, Andreas sta ubriacandosi nel solito bistrot vicino alla chiesa di Sante-Marie des Batignolles (la sua meta mai raggiunta), quando vede entrare una delicata ragazzina, già da lui incontrata, rivista in sogno e scambiata per la piccola Teresa (anche lei si chiama così). Con le ultime forze tenta di restituire a lei i 200 franchi dovuti alla santa. Ma ormai distrutto dall’alcol viene colto da malore. Trasportato nella sagrestia della chiesa, muore in pace stringendo fra le dita le due banconote. Finalmente ha potuto sdebitarsi.

Nel film come nel racconto sono riconoscibili analogie con le parabole evangeliche dei talenti e del figlio scialacquatore. I soldi messi in mano al barbone dal misterioso signore che gli ha dato così ampia fiducia (figura di Dio?) rappresentano la vita, il tempo che l’uomo ha a disposizione in questo mondo, come sottolineato anche dalle scene in cui Andreas contempla assorto l’orologio regalatogli dalla madre morta. Questi soldi devono essere fatti fruttare, spesi o restituiti finché si è vivi. Sotto questa prospettiva la piccola Teresa, verso cui egli è debitore, simboleggia la morte.

Andreas non nasconde certo il talento ricevuto, piuttosto lo dissipa. Ed è tutt’altro che un modello di virtù: ha involontariamente ucciso il marito violento della donna amata, e per questo, dopo aver scontato la pena, è stato espulso dal suo Paese; inoltre non sa dire di no alle tentazioni dell’alcol e della carne, e per tre volte vien meno all’impegno preso: sempre però per andare verso chi, solo e smarrito come lui, vaga per le strade del mondo. Trasgredisce alla religione intesa come dovere, come insieme di norme, ma obbedisce alla religione del cuore rappresentata da coloro che incontra, siano pure donne compiacenti o ubriaconi: ciò che per Olmi «è proprio il tratto profondamente cristiano del film».

Reduce da una grave malattia, dalla propria esperienza del dolore il regista lombardo ha tratto un insegnamento: «Probabilmente il Padre Eterno non vuole essere amato direttamente, ma vuole essere amato attraverso gli uomini. […] Andreas ama con semplicità e naturalezza: questa è la sua fortuna. […] In nome dell’onorabilità, assolve prima il debito con gli uomini, poi quello con Dio».

Dopo ogni tentativo fallito per raggiungere la chiesa dove lo attende la piccola Teresa, spinto anche dal forte senso dell’onore, l’ex minatore si sforza di ricominciare. Rimanendo così fedele alla sua apertura al trascendente. Ed è questo positivo a farlo “santo” malgrado bevitore con le sue colpe e fragilità.

Sulle tracce di Olmi abbiamo percorso viuzze e piazzette un po’ fuori mano del 17° arrondissement, ammirando i diversi stili architettonici di certi edifici, ma più che altro cercando i luoghi e le atmosfere che ci hanno suggestionato. Non certo i colori blu, ocra e grigio creati apposta per sottolineare di volta in volta gli stati d’animo del protagonista.  Per fortuna la pioggia che ha “bagnato” diverse scene, quasi un richiamo al simbolismo dell’acqua in Tarkovskij, ci ha graziati, anche se il cielo rimane nuvoloso. E come dimenticare la magia di una colonna sonora tutta realizzata con musiche di Stravinskij? La precarietà di un’esistenza come quella di Andreas non poteva essere resa meglio se non da quelle dissonanze capaci di produrre un’impressione di instabilità.

Eccoci giunti a Place du Docteur Félix Lobligeois tranquilla e senza pretese, ben lontana dalle magnificenze della Ville Lumière. Subito vi riconosciamo la chiesa del film, la sua facciata neoclassica che domina la piazza. Prima però di entrare, seguendo l’esempio di Andreas, facciamo una puntata nel vicino bistrot dove più d’una volta il nostro clochard ha atteso la fine della messa domenicale trincando abbondante Pernod da solo o con l’amico beone che gli ha soffiato i duecento franchi. In questo stesso locale, pochi minuti prima di morire, ha avuto luogo il suo ultimo colloquio con la misteriosa fanciulla scambiata per la santa di Lisieux.

Una volta in chiesa, presso la cappella con la statua della piccola Teresa cerchiamo l’inquadratura che le ha dato Olmi per poi spostarci in quella sagrestia dove, tra preti e chierichetti attoniti, Andreas morente è stato collocato su un seggiolone di legno intagliato, come in un trono.

Il film, dicevo all’inizio, rappresenta attraverso la vicenda di un senzatetto la vita come un viaggio dove tutto è provvisorio e nessuna dimora è stabile: la protezione di un ponte, l’ospitalità di una notte, un modesto albergo, i vari bistrot…. Ma è nell’incontro con la morte che Andreas, pagato il debito, ritrova la sua dignità di uomo. Muore fra le braccia della Chiesa che prefigura la patria celeste.

Come didascalia finale del film Olmi ha voluto riportare la frase con cui termina il racconto di Roth: «Conceda Dio a tutti noi, a noi bevitori, una morte così lieve e così bella!».

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