L’ottimismo della croce

«Serve un grande equilibrio e l’aiuto internazionale per fare la pace», ci dice il patriarca dei latini mons. Foud Twal
monsignor Foud Twal

È la terza volta che lo intervisto. Certamente oggi ha qualche anno in più, ma la sua determinazione è cresciuta. Per la difesa dei “suoi” palestinesi (è giordano, mons. Foud Twal), ma anche per la pace, per il rispetto degli ebrei e dell’esistenza d’Israele, per la coesistenza pacifica nella regione. «Troppo spesso non mi capiscono – si lamenta –, soprattutto i media: se parlo bene dei palestinesi, gli israeliani mi accusano di non essere equilibrato. E se i palestinesi ascoltano i miei apprezzamenti per qualcosa di israeliano, non ci stanno. Ma un cristiano non deve essere contro qualcuno, mai; deve essere piuttosto amico di tutti, non deve demonizzare nessuno», sentenzia mons. Twal in conclusione del nostro colloquio.

 

Nei giorni scorsi ha avuto un appuntamento col presidente israeliano Shimon Peres – «un uomo di grande equilibrio, con una visione delle cose assai ampia, gli israeliani dovrebbero ascoltarlo di più» –, ed è andato a Ramallah per incontrare il presidente palestinese Abu Mazen – «è l’uomo unanimemente riconosciuto come vero rappresentante del popolo palestinese».

 

Da sempre i rapporti tra le Chiese cristiane in Terra Santa conoscono alti e bassi. Oggi siamo verso l’alto o verso il basso?

«Parliamo della dimensione spirituale dell’ecumenismo, che si radica sul Golgota, sulla croce. Dobbiamo amare in questo modo, oggi, anche se la speranza non muore. Il nostro ecumenismo è fatto di poche parole e di molti fatti: qui a Gerusalemme, infatti, conviene parlare poco e tradurre in vita il Vangelo comune. Come Chiesa cattolica abbiamo un centinaio di scuole (Giordania compresa) per 22 mila alunni. E a Betlemme sono quattro gli ospedali cattolici, che assistono malati al 92 per cento non cristiani. Ci sono inoltre un centinaio di congregazioni religiose che operano nella società, e anche nell’ecumenismo, a fatti. Cerchiamo inoltre di essere vicini anche alle Chiese più piccole, che non hanno che pochi fedeli, con l’affetto, con l’amicizia, impiegando nei nostri uffici loro membri. E anche il nostro vocabolario cerca di essere ecumenico, perché parliamo sempre di minoranza cristiana, non cattolica. Capisco che qualcuno provi un certo timore per questa nostra forza silenziosa».

 

Si è fermata l’emigrazione dei cristiani della Terra Santa grazie all’incremento dei pellegrini avvenuta in questi ultimi anni?

«L’arrivo di tanti visitatori aiuta a fermare l’emigrazione. Naturalmente, in primis questi arrivi sono testimonianza dell’amore della Chiesa universale per i cristiani di Terra Santa; in secondo luogo la presenza dei pellegrini, in particolare a Betlemme, dà lavoro ai cristiani. E quando c’è lavoro non si pensa né all’emigrazione né alla violenza».

 

Preoccupati delle rivolte nei Paesi arabi?

«Tutti siamo stati assai inquieti nelle ultime settimane, soprattutto per quanto stava accadendo in Egitto. Poi, dopo che la giunta militare che ha preso il potere al Cairo ha dichiarato ufficialmente che rispetterà tutti i trattati internazionali, compresi quelli con Israele, la tensione è scemata. Tuttavia mi sembra di dover sottolineare il fatto che la politica del governo israeliano non dovrebbe accontentarsi di avere qualche ambasciata araba in Israele. Perché i governi passano, come stiamo vedendo. Bisogna chiedersi piuttosto che cosa fa Israele per farsi apprezzare dai popoli arabi, e non solo dai loro governi».

 

C’è scoraggiamento tra i cristiani?

«Noi tutti speriamo e crediamo nella pace, secondo quanto Benedetto XVI ha dichiarato in modo chiarissimo nella sua visita dello scorso anno, in particolare nel suo discorso all’aeroporto di Tel Aviv: due popoli due Stati. In quell’occasione aveva veramente parlato da amico sia degli israeliani che dei palestinesi. Certo, la pace deve essere resa possibile, non come accade di questi tempi: il popolo palestinese, questo sì, e quindi anche i cristiani, sono scoraggiati. Non credono più alle parole dei politici e scaricano le colpe sul più forte, su Israele. Lo Stato israeliano, proprio perché è il soggetto più forte in campo, dovrebbe comportarsi da padre, avere una visione ampia e lungimirante, non angusta e limitata alle piccole e insignificanti vittorie parziali».

 

Cresce l’inquietudine per la penetrazione degli israeliani nella zona araba della città santa, a Gerusalemme Est; espansione che avviene anche per l’offerta di cifre molto elevate per l’acquisto di abitazioni dei palestinesi…

«L’espansione ebraica a Gerusalemme Est fa male sia agli israeliani che ai palestinesi. Ma soprattutto fa male alla pace e toglie credibilità ai discorsi dei politici. Nel passato ho chiesto più impegno da parte della comunità internazionale per riportare la pace in Terra Santa, perché ritenevo che servisse un mediatore franco, che parlasse chiaramente e non usasse solo i linguaggi della diplomazia e della cortesia. Oggi chiedo la stessa cosa ma ancora più fortemente, per la pace e la giustizia. Una madre che ama veramente il figlio deve sapergli dire anche dove sbaglia, per amore. Le troppe coccole viziano».

 

La situazione della Striscia di Gaza non è ancora delle migliori…

«È diventata una fabbrica di estremisti, la Striscia. Anche chi non vorrebbe diventarlo finisce col diventarlo, per le situazioni di estremo degrado e di disagio che la popolazione sta vivendo. Scontentezza e disperazione aumentano per il milione e mezzo di assediati. D’accordo, si vogliono isolare gli estremisti di Hamas, ma perché infliggere tante privazioni a mamme e bambini? Pensi un po’ l’assurdo: ormai le auto stanno scomparendo, e appaiono di nuovo gli asini, ogni giorno che passa il prezzo di questi animali da soma, ormai diventati i re della strada, aumenta. La comunità internazionale tace, in un silenzio che sembra ormai una quasi complicità».

 

Due popoli due Stati? Quando si realizzerà l’auspicio di tanti?

«È solo un problema di buona volontà e di fiducia».

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