Lotta fra solitudini

¦ I due registi Annalisa Bianco e Virginio Liberti, nell’allestire Nella solitudine dei campi di cotone di Bernard-Marie Koltès, si sono voluti assumere il compito di liberare il testo del fastidioso cliché che lo vuole come una riflessione sul Desiderio. Ritenuto – a detta loro – troppo visibile, ovvio, riduttivo . Nelle parole poetiche del testo dichiarano di avervi trovato la vita con la sua Complessità e Molteplicità. Bene l’assunto. Ma nello spettacolo non si capisce che cosa tutto questo significhi, comprese le due maiuscole. Forse si tratta dell’impossibilità di capire l’essere umano, frutto di complessi rapporti sociali ed economici, che ne determinano l’agire; o la sua relatività nel mondo? La pièce riguarda l’incontro, dopo un equivoco abbordaggio iniziale, tra un cliente e un compratore per un affare forse illecito che i due, temendo un rifiuto, non rivelano. L’uno è pronto ad offrire qualsiasi cosa di cui l’altro abbia bisogno; questi non sa quello che inconsciamente vuole. La scrittura ha l’andamento di un dialogo filosofico costruito per blocchi di monologhi: un combattimento verbale, che culminerà con l’uccisione di uno dei due. L’inquieta metafora dell’esistenza secondo lo scrittore francese (morto prematuramente a 40 anni, nell’89), rimanda all’immagine di una società dominata dalla compravendita di qualsiasi cosa o persona. Vi leggiamo una società che ha smarrito il senso della trascendenza e che basa il relazionarsi sulla reciproca sopraffazione. La seduzione poetica delle parole del testo restituita in famose messe in scena, nell’allestimento di Bianco e Liberti si sposta visivamente sugli oggetti materializzandosi in un’aggressività di stampo televisivo. Ingombra di cianfrusaglie da rigattiere sparse ovunque, la scena sembra una discarica del kitsch. Vi sono panchine, tavoli, sedie, e anche un dipinto della Madonna del Latte del Lorenzetti coperta dal cellophan. Se nell’originale di Koltès l’ambientazione è notturna e in un bassofondo metropolitano, qui la scena è sempre luminosa e lo spazio, che si estende in lunghezza e attraversato da una rete di recinzione, assomiglia ad uno squallido campo profughi. E tali sembrano i due uomini, relitti suburbani alla deriva, due solitudini che non potranno però più fare a meno l’uno dell’altro, le cui nevrosi si rivolgono agli oggetti – versarsi dell’acqua, battere violentemente un materasso, colpire il tavolo col coltello, incappucciarsi con un sacchetto di carta -. Il loro commercio immaginario ad un certo punto si materializza in un campionario di prodotti casalinghi tirati fuori da valige sgualcite ed esposti col piglio di imbonitori da televisione trash, che si rivolgono al pubblico cercandone la complicità. Il loro relazionarsi assume tinte beckettiane, e, spingendo il pedale sul versante comico, indossano abiti da donna con tanto di parrucche e di tacchi, imprimendo un’accelerazione surreale al finale. Nell’estenuante duetto- duello Fulvio Cauteruccio e Michele Di Mauro offrono una magistrale prova attorale di grande impegno fisico, vocale, ed espressivo. Che riscatta l’incomprensibile assunto programmatico.

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