Lotta di fratelli siberiani

Dal libro, al grande schermo, al palcoscenico. Dopo la versione cinematografica di Gabriele Salvatores, ecco ora approdare a teatro il fortunato romanzo d’esordio di Nicolai Lilin Educazione siberiana.
teatro

Romanzo d’ispirazione autobiografica del trentatreenne autore della Transnistria (territorio dell’ex Unione Sovietica, e attuale Moldova autoproclamatasi repubblica indipendente nel 1990 senza però essere riconosciuta da nessun Stato) approdato nel 2003 a Torino, e da dieci anni residente a Milano, il libro Educazione siberiana narra l’infanzia e l’adolescenza in un villaggio di quella lontana regione, di due fratelli, Boris e Yuri, in contrasto tra di loro: uno legato alle vecchie regole della tradizione siberiana, e l’altro attratto dalla ricchezza e dal sogno americano. Entrambi appartengono ad una comunità, gli Urka, i cosiddetti “criminali onesti” di Fiume Basso – siberiani dediti al crimine, a suo tempo confinati da Stalin nel Sud della Russia -, gente con propri codici etici inviolabili determinata nella lotta con i prevaricatori protetti dalla legge e i politici corrotti. Parlano di amicizia e di lealtà, e posseggono un forte senso religioso visibile nel tenere in casa le icone sacre, ma con accanto esposte le armi. A contraddistinguerli sono i corpi fittamente tatuati, espressione di un linguaggio e di una comunicazione primitiva: tatuaggi come mappe che rappresentano iniziazione e tappe fondanti della vita. Hanno grande rispetto per i deboli della comunità, chiamati “i voluti da Dio”. Se uno di questi viene ucciso, la comunità intera ne risente, diventa vulnerabile. E soccomberà. 

 

Da quando è caduto il muro di Berlino e la conseguente sparizione dell’Unione Sovietica, il mondo ha cominciato a cambiare, e qualcuno ha iniziato a pensare che non sia il cuore la misura giusta dei desideri, e che anzi non ci sia niente di giusto. Così criminalità e violenza regnano sotto forma di guerra tra bande e polizia, tra ragazzi e sbirri. E qui s’inserisce la vicenda dei fratelli dentro il microcosmo di una famiglia con un padre assente e la sola madre che assisterà alla rovina dei figli, e con nonno Kuzja, un ex militare, ora impegnato nell’educazione dei due giovani nipoti dagli istinti animaleschi e anarchici. In quel villaggio corrotto dove la polizia gestisce il traffico della droga, pur di raggiungere il suo sogno di potere e ricchezza Boris si alleerà con un poliziotto e non esiterà a tradire la sua famiglia, accendendo così una spirale di violenza e di morte. C’è una frase detta dall’anziano “onesto” criminale che sancisce sul finale una sorta di morale: «È da pazzi volere troppo, un uomo non può possedere più di quello che il suo cuore può amare!».

 

Per la versione scenica il regista Giuseppe Miale Di Mauro e lo stesso autore hanno concentrato la storia su alcune tematiche del romanzo, per far  emergere un dramma moderno e parlare del male dell’uomo, del tradimento di sé stessi, della falsa felicità che procurano gli idoli del benessere, della battaglia interiore fra il sé e il mondo illusorio. Si sa che tradurre drammaturgicamente una materia letteraria non concepita per la scena, è impresa rischiosa, specie se si è letto il libro. E, in questo caso, se si è visto anche la trasposizione cinematografica. Fare paralleli dunque diventa inevitabile. Sarà forse per questo che, a differenza degli amici coi quali ho condiviso la serata, digiuni della storia e del film, lo spettacolo, non mi ha convinto. Per un eccesso di didascalismo, e per una inevitabile riduzione spaziale della scena, e dei movimenti dei personaggi, che spegne l’afflato epico della saga siberiana. La scena a due piani tenta, pur con una bella soluzione, di ampliare l’orizzonte. Sullo sfondo dell’interno domestico con cucina e tavolo e, ad angoliera, un altarino di icone, c’è un palco rialzato che s’alza e si abbassa rivelando con mezzi busti o solo gambe, gli ambienti esterni dove si consumano soprusi ed omicidi. Fino ad aprirsi totalmente nel duello finale tra i due fratelli. Generosa, comunque, la prova degli attori guidati dal Kuzja di Luigi Diberti.

 

“Educazione siberiana” di Nicolai Lilin, da un’idea di Francesco di Leva e Adriano Pantaleo, regia Giuseppe Miale di Mauro, con Luigi Diberti, Elsa Bossi, Ivan Castiglione, Francesco Di Leva, Adriano Pantaleo, Giuseppe Gaudino, Stefano Meglio e Andrea Vellotti. ProduzioneStabile di Torino, Teatro Metastasio Stabile della Toscana, Emilia Romagna Teatro Fondazione, in collaborazione con NesT. Al Piccolo Eliseo di Roma, fino al 16 febbraio. In tournèe.

 

 

 

 

 

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