Lotta alla corruzione
Anche Città Nuova è stata toccata da un episodio di (tentata) corruzione. Correva l’anno 2001, la tipografia del gruppo editoriale aveva riammodernato la sede. Tra i controlli di rito, la visita di un ispettore della Asl. Prende con cura nota di tanti dettagli e se ne va. Il suo atteso parere non arriva. Le macchine restano ferme, si perdono soldi e lavori. Il direttore sollecita la pratica. Per tutta risposta, un’ulteriore visita di controllo. Passano giorni di sospensione, poi finalmente torna l’ispettore, questa volta con un collega. Un nuovo rapporto viene stilato. Forse è la volta buona, tanto che per pura cortesia il direttore della tipografia offre all’ispettore un libro per i figli. Costui storce la bocca e sibila: «E al papà dei bambini non si fa nessun regalo?».
La battuta è infelice ma, si sa, non tutti sono Benigni. Trascorre qualche giorno e il nullaosta relativo al rispetto della legge 640, quella sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, non arriva. Purtroppo ci si rende conto che la battuta costituiva una precisa indicazione. Il direttore allora cerca di aggirare l’ostacolo tentando altre piste. Ma alla fine non restano che due vie: o si paga o la tipografia rischia la chiusura, perché sono state «trovate altre inadempienze» che «esigono nuovi sopralluoghi», viene fatto sapere. Al direttore arriva un messaggio secco: servono cinque milioni di lire, una bella somma undici anni fa. Ma per chi vuol migliorare la società vivendo il Vangelo, anche due soldi sono sempre troppi per “ungere” qualcuno.
Scatta la denuncia alla polizia. Una decisione non priva di travaglio, perché non sono da escludere ritorsioni sull’azienda e sulle persone. La polizia indica di stare al gioco e di mettere i soldi in una valigetta. La busta con la “mazzetta” viene consegnata. Un attimo dopo sopraggiungono le forze dell’ordine che arrestano i due della Asl. I permessi arrivano in pochi giorni e si ricomincia a stampare. Più tardi, il processo e la condanna.
Era passato un decennio dall’epoca di Mani pulite, eppure la logica della corruzione era penetrata ancora di più nei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione. Negli ultimi tempi, ad arricchire il campionario, ecco venire alla luce le imprese dei (già) tesorieri della Lega Nord, Belsito, e del gruppo di Rutelli, Lusi, sino a giungere a Franco Fiorito, ex capogruppo del Pdl al Consiglio regionale del Lazio, accusato di peculato per aver trasferito sui suoi conti dalle casse del gruppo 1,3 milioni di euro, compiendo un lungo elenco di folli spese personali.
Per di più nella legislatura in corso sono stati 90 i parlamentari indagati (10 per cento del totale: di cui 59 Pdl, 13 Pd, 8 Udc), condannati o arrestati per corruzione, concussione, truffe e abuso d’ufficio. Sono stati invece circa 400 gli amministratori locali coinvolti da inchieste giudiziarie per gli stessi reati.
Lo scivolamento verso l’illegalità non ha più alcun confine territoriale, come invece si riteneva sino a tempi recenti. È di qualche giorno fa la notizia dell’arresto di Zambetti, con l’infamante accusa di voto di scambio con la ’ndrangheta, quinto assessore della giunta della Regione Lombardia. Provvedimento che porta a 13 il numero degli esponenti politici di quella assemblea elettiva incorsi dal 2010 nelle maglie della giustizia.
Non può meravigliare perciò che nelle graduatorie internazionali il nostro Paese si attesti, in fatto di legalità, solo al 69° posto (due anni fa era al 63°), sotto il Ruanda e il Botswana e in compagnia di Ghana e Isole Samoa. Sul fronte europeo, secondo i dati di “Trasparency International”, siamo davanti solo a Grecia, Romania e Bulgaria.
Come stanno le cose in casa nostra l’ha ricordato recentemente anche Luigi Giampaolino, presidente della Corte dei Conti, che ha indicato in 60 miliardi di euro all’anno l’onere della corruzione sui bilanci pubblici. Gli effetti, congiuntamente a quelli provocati dai traffici illeciti, sono deleteri anche per lo sviluppo del Paese: penalizzano gli imprenditori onesti, cosicché le aziende sane entrano in crisi e si ferma la filiera dei fornitori e della produzione collegata.
Un settore di tutto riguardo è quello delle opere pubbliche, ritenuto «la vera manna dei grandi corruttori». La Corte dei Conti, in una relazione del giugno scorso, forniva una stima davvero devastante: per effetto degli «accordi corruttivi», i costi delle opere pubbliche subiscono un incremento del 40 per cento, che ricade sui contribuenti.
E non è tutto. Ormai si costata, come indica un dossier di Libera pubblicato ad inizio ottobre, una novità emersa negli anni più recenti, «il dilagare dell’ecomafia, attraverso fenomeni come i traffici di rifiuti (che avvelenano l’ambiente), le autorizzazioni per impianti eolici e fotovoltaici, il ciclo illegale del cemento, che si alimentano quasi sempre anche grazie alla connivenza della cosiddetta “zona grigia”, fatta di colletti bianchi, tecnici compiacenti, politici corrotti».
Il fenomeno appare inarrestabile, eppure dal 1999 l’Unione europea ha emanato direttive sul tema ma non sono state ancora recepite nel nostro ordinamento. Gravissima mancanza! Non disponiamo di un’Autorità anticorruzione, mentre dal 2010 vive un periglioso cammino il tentativo di varare una legge contro la corruzione.
Al momento in cui scriviamo il testo del disegno di legge non è ancora approvato. Quindi non ne conosciamo fisionomia, portata ed efficacia. Come è stato anticipato sul sito di Città Nuova, abbiamo apprezzato l’introduzione nel testo provvisorio di due nuove figure di reato: la corruzione tra privati e il traffico di influenze illecite (ovvero, l’attività di intermediazione volta alla corruzione). Giudichiamo negativamente invece la debolezza delle pene, per cui è quasi certa la prescrizione dei reati, con la conseguenza che sarà improbabile giungere a una sentenza definitiva di condanna.
In attesa di valutare la nuova normativa nella versione definitiva, restano degne di attenzione le indicazioni di Maria Teresa Brassiolo, presidente della sezione italiana di “Trasparency International”, che suggerisce: una semplificazione normativa e burocratica per rendere trasparenti per cittadini e imprese tutti i processi di interazione con la pubblica amministrazione; altrettanta trasparenza e indipendenza dei mezzi di informazione e delle Autorità garanti, sottratte però all’influenza della politica e dell’economia; investire in educazione civica e morale, promuovendo progetti formativi che sviluppino anticorpi per prevenire e contrastare la corruzione e ridare alla società una coscienza matura.
Sono infatti così diffusi gli atti di grande e piccola corruzione che rischiamo di considerarli come reati minori, tanto più se la legge prevede pene miti. Se il rispetto della legalità costituisce un bene per tutti, c’è bisogno di un concorso di fattori che aiutino a ritenere la corruzione un vero e proprio cancro per l’integrità del corpo sociale.
Il punto
Partiti, ramazza e secchio
Non è stato ancora approvato, al momento di andare in stampa, il testo definitivo della legge anti-corruzione. Rimangono perciò da conoscere un paio di punti controversi: l’incandidabilità dei condannati e se la norma sarà applicata sin dalle elezioni politiche della prossima primavera. C’è, ovviamente, da augurarselo. Ma va anche detto che il punto non sta qui.
È indispensabile una legge per fare pulizia? I partiti politici, da soli, non potrebbero (e dovrebbero) usare "ramazza e secchio" per fare opera di bonifica al proprio interno?
Il nodo cruciale allora è questo: la selezione a monte del ceto politico, compiuta dai partiti, sulla base di criteri rigorosi.
Non potrà compiutamente affermarsi una cultura della legalità se non facendo fronte comune (cittadini, mondo delle professioni, organizzazioni di categoria, politici e rappresentanti delle istituzioni) e costituendo una diga nei confronti del fenomeno anti-sociale della corruzione. Per questo è indispensabile definire in modo univoco la cosiddetta “area grigia”. L’ampiezza di quest’area è di difficile valutazione: essa appare comunque necessaria alle cosche mafiose per gestire le proprie attività economiche illegali. La società civile è chiamata a fare per intero la propria parte; il mondo della politica, anche di più.
Come? Tutti i partiti politici dovrebbero impegnarsi ad estromettere dalla vita politica – e, a tal fine, non solo a non inserire tra le liste dei propri candidati, ma anche a non designare per incarichi di gestione politica nelle compagini governative, negli esecutivi delle giunte amministrative, ai vertici e nei consigli di amministrazione di enti di sottogoverno di ogni livello – persone che: 1) abbiano riportato condanne penali per reati contro la pubblica amministrazione; 2) siano sottoposte a giudizio per gravi reati di collusione con organizzazioni mafiose; 3) abbiano acclarati conflitti di interesse con l’amministrazione pubblica, per la titolarità di attività imprenditoriali le quali possano ricavare vantaggi diretti e/o indiretti dall’esercizio personale di un ruolo pubblico.
Sono possibili deroghe? Può un partito, ad esempio, candidare un proprio esponente benché condannato per un reato contro la pubblica amministrazione? In mancanza di un espresso divieto normativo, certo, questo è possibile. Ma in tal caso il partito dovrà dirlo pubblicamente e motivare la scelta, con decisione collettiva, garantendo per l’integrità di quel candidato, nonostante la condanna. E bisognerà che lo spieghi agli elettori. I cittadini elettori decideranno, poi, se votarli oppure no.
Il caso
Da "presunto corrotto" a riformatore
Cento giorni di detenzione tra il carcere e i domiciliari, sei anni di processi con l'accusa di abuso d'ufficio e corruzione. Poi l'elezione a deputato regionale e la proposta shock di tagliare le poltrone dell'assemblea regionale siciliana da 90 a 70.
La parabola politica di Giovanni Barbagallo, siciliano, 60 anni, tra i dirigenti del Partito popolare isolano, era destinata all'ascesa. Stimato funzionario dell'Azienda trasporti, cattolico impegnato, una bella famiglia e tanti amici stregati dalla cordiale giovialità e dalla rapida parlantina, lo avevano portato ad essere un amministratore locale che della partecipazione aveva fatto un fiore all'occhiello. Invece nel 1993 la tangentopoli catanese si abbatte su di lui come un uragano. La costruzione del centro fieristico di viale Africa, nel cuore del capoluogo etneo, muove cospicue mazzette in direzione della giunta provinciale. Giovanni in quel momento è assessore ai lavori pubblici.
Il presidente della Provincia viene sorpreso con una tangente da distribuire ai suoi consiglieri per favorire alcuni imprenditori nelle gare per gli appalti pubblici. Peccato che Giovanni si rifiuti di partecipare alla seduta per l'assegnazione dell'appalto del centro fieristico e ad altri incontri sull'esecuzione dei lavori, arrivando persino a dimettersi per aver visto fallire progetti decisamente in controtendenza. La parabola prende da questo momento la via discendente: 10 giorni in carcere, 90 agli arresti domiciliari, prima di un'assoluzione che lo vede estraneo ai fatti, cosa quanto mai difficile da dimostrare in una giunta in cui sui 29 chiamati in causa per corruzione, ben 21 vengono condannati.
Una pietra tombale sembra seppellire il suo impegno pubblico. Poi nel 1998 la candidatura come deputato dell'Assemblea regionale siciliana, la vittoria e tante battaglie sull'abolizione degli enti inutili, sulla soppressione di benefit e consulenti esterni e, per ultima, una proposta di legge per ridefinire l'assetto della Regione: ridurre i parlamentari da 90 a 70 e tagliare i vitalizi. «Volevo che la Sicilia fosse prima non solo in vizi, ma anche in virtù. Il clima del Paese è cambiato e volevo dare un segnale», precisa Barbagallo.
Purtroppo il presidente Lombardo si è dimesso, costringendo ad elezioni anticipate e gettando la proposta di legge nella spazzatura, nonostante Senato e Camera avesse dato il via libera in prima lettura. Intanto alla prossima tornata elettorale Barbagallo ha scelto di non candidarsi perché «non si può rinnovare la politica con gli stessi protagonisti. Restare nello stesso posto per molti anni non aiuta a far crescere una nuova classe dirigente». Lui punta sui giovani amministratori che «hanno dimostrato di sapere operare nella propria comunità e meritano di essere valorizzati». A loro passa il testimone.