L’oro di Traiano
Roma, 357 d. C. In visita da Costantinopoli, l’imperatore Costanzo II stava ammirando i principali monumenti della città quando, condotto al Foro di Traiano, rimase letteralmente senza fiato, sopraffatto dalla grandiosità degli edifici, dallo splendore dei marmi e, soprattutto, dal colossale monumento in bronzo di Traiano che si ergeva nella piazza. Si dice che, tornando nella sua capitale d’Oriente, il sovrano meditasse di farsi costruire pure lui qualcosa di analogo.
In effetti il Foro di Traiano, progettato dal celebre architetto siriano Apollodoro di Damasco e inaugurato nel 112, era considerato una delle meraviglie del mondo antico; tuttora i suoi resti monumentali, costituiti dai mercati, dalla basilica Ulpia e dalla colonna istoriata, suscitano l’ammirato stupore dei visitatori.
Ma dove si trovarono i mezzi economici necessari a un complesso del genere, interamente rivestito di marmi preziosi e dotato di una vera selva di sculture? Semplice. Dalla vendita del bottino ottenuto dalle guerre che nel 101-102 e nel 105-106 d. C l’imperatore Traiano combatté contro gli antenati degli attuali rumeni: i Daci. Guerre concluse con la sconfitta e morte del loro re Decebalo, cui seguì la nascita di una nuova provincia romana: la Dacia, appunto, con capitale Ulpia Traiana Sarmizegetusa, che fiorì nella zona sud-occidentale dell’altopiano transilvanico.
Da cosa era costituito quel bottino? Prevalentemente da oro, oro di cui la regione conquistata era immensamente ricca, oltre che del legname prodotto dalle sue sterminate foreste. Si pensi che esso fu talmente abbondante da poter finanziare non solo la costruzione del Foro traianeo e di altre opere pubbliche, ma anche da risollevare le esangui casse dello Stato.
Centro principale di estrazione del prezioso metallo, subito divenuto di proprietà del fisco imperiale, erano le miniere di Alburnus Maior, tuttora esistenti là dove oggi sorge il villaggio di Roşia Montană, nel centro dei Carpazi Occidentali: con la loro rete di gallerie che si addentrano nella montagna per decine di chilometri, molte delle quali ancora inesplorate, esse rappresentano il complesso minerario di età romana meglio conservato, la cui attività, affidata a tribù illiriche in essa specializzate, sembra cessasse solo verso la metà del III secolo d. C., quando ormai nell’Impero dilagava l’anarchia militare.
Di straordinario interesse scientifico sono le 25 tavolette cerate ritrovate nelle antiche gallerie, che riportano alcuni contratti di affitto di esigui lotti da scavare a piccoli appaltatori. Ma il proseguimento delle indagini archeologiche ad Alburnus Maior e nelle sue necropoli promette chissà quali altre sorprese.
Purtroppo un sito così importante per comprendere come avveniva nell’antichità non solo l’estrazione dell’oro, ma anche come funzionava la gestione di un complesso minerario, rischia oggi di andare perduto: il governo rumeno, infatti, ha autorizzato una compagnia multinazionale canadese a riprendere con tecniche moderne l’attività estrattiva dell’oro.
Se ciò dovesse realizzarsi, costituirebbe non solo una perdita irreparabile sotto l’aspetto scientifico-culturale, ma, data la quantità di cianuro necessaria per separare l’oro dalla roccia aurifera, un serio pericolo dal punto di vista ecologico. Ecco perché, per scongiurarlo, molti movimenti di protesta, sorti non solo in Romania ma anche all’estero, si attivano per dare battaglia. Riusciranno a contrastare i progetti dei moderni emuli di Traiano?
Foto di Daniel Tara