L’oro di Napoli
È la civiltà barocca del Sei-Settecento. La celebrano sei rassegne. Uno sguardo al passato .
Dall’alto della Certosa di San Martino il panorama sulla città sbalordisce. Dopo la visita allo splendore della chiesa, un ricamo pieno di vita, dai pavimenti alle tele alle statue, l’ariosità dei chiostri è richiamata dalla visione della metropoli, che il cielo invernale rende ancora più fascinosa.
Napoli vecchia si annida tra cupole, palazzi in pietra lavica e vie strette; Napoli nuova si alza tra costruzioni in vetro e acciaio, dietro cui si spalanca il Vesuvio rannuvolato.
È uno spettacolo barocco, cioè vitale, grandioso. Anche oggi, come nei secoli diciassettesimo e diciottesimo, quando Napoli era un cuore pulsante di arte e cultura per tutta l’Europa. Lo testimoniano le sei mostre, ma anche gli infiniti luoghi, noti e sconosciuti, di una città che allora come ora è «un gran teatro del mondo». Come ai tempi di Caravaggio e Vanvitelli.
Appare subito il Caravaggio al Museo di Capodimonte, ad aprire la prima rassegna. La sua Flagellazione, pesante nelle ombre dolorose dei corpi, spiana la strada, nel 1607, ad una nuova stagione. Fa svegliare gli artisti di colpo dal sonno dell’arte accademica per guardarsi intorno. Osservare ciò che (tuttora) vive nei vicoli, nei luoghi della povertà e ritrarli – con la scusa dei soggetti sacri e profani – con una passione acuta. La Flagellazione di Battistello Caracciolo ricorda Caravaggio, ma grida ancora più forte: il chiaroscuro ostinato la fotografa come una scena di vita in bianco-e-nero. Luca Giordano riprende ben tre volte il mito di Apollo e Marsia: un supplizio capitale ordinario o un assassinio, che il pittore rende meno raccapricciante inventandosi panneggi svolazzanti violacei sul corpo del dio. Jusepe Ribera ritrae nelle tele dei “cinque sensi” una umanità umile – che mangia maccheroni, assaggia del vino, annusa dell’aglio… – ma con una straordinaria dignità. Sono opere dove la luce taglia violenta le ombre, e la vita appare nella sua quotidiana drammaticità.
Un colpo d’occhio, in pieno quartiere popolare, al Pio Monte della Misericordia, associazione benefica operante da quattro secoli, e ci si apre nella chiesa lo spettacolo-sintesi del volto realistico del barocco napoletano. Sull’altare, con la cornice marmorea intatta, la Madonna della misericordia caravaggesca, specchio dell’umanità di sempre, circondata dalle tele con le “opere di misericordia” degli altri maestri. Fra tutti, il San Pietro liberato dal carcere, ancora del Battistello, stupisce per la mimica tutta meridionale che “dice” lo sbigottimento del santo di fronte al ragazzo-angelo, nel buio notturno che fa paura. Sembra di trovarsi nei vicoli bui della città.
Ma il barocco non è solo dramma. Esalta i lati vitalistici dell’esistenza.
Da un parte riempie chiese e cappelle – numerosissime – con sepolcri marmorei dove il teschio ricorda la fine di tutto, esasperando la tendenza al sentimento “nero” del vivere; dall’altra fa esplodere la frenesia di un paradiso in terra nelle “glorie” delle cupole affrescate: nella cappella di san Gennaro in Duomo – dove i “settentrionali” Domenichino e Lanfranco sembrano in preda ad una vera follia coloristica – o nella chiesa dei Santi Apostoli.
Qui il vortice dei santi e degli angeli è certo l’eco dei concerti musicali, vivi e sensuali, di una città che è stata per secoli un faro della musica europea, come testimoniano gli archivi, spesso inesplorati, del Conservatorio di san Pietro a Majella. La gioia esplode senza riserve, accompagnando melodie che non conoscono divisioni sociali. Si canta e si suona nei quartieri bassi come nelle dimore patrizie. Due tele di Filippo Falciatore (Detroit, Institute of Arts) ritraggono una Tarantella a Mergellina e un Trattenimento in giardino.
La prima, ariosa come i dipinti settecenteschi, vede i popolani con chitarra e tamburello danzare in piena libertà, seguendo l’estro del cuore; la seconda, nell’ambiente forse di Palazzo Reale, ritrae i nobili incipriati al cembalo e al violino, rapiti dal canto.
Ma si osa ancora di più. I pittori si sbizzarriscono a duplicare i santi Giovannini o Sebastiani, Veneri o Amorini, ragazze e ragazzi del popolo, per cantare la freschezza giovanile, contrapponendola alla decadenza della vecchiaia: è il gusto degli opposti estremi, tipico della sensibilità barocca che trova una connaturale simpatia nell’anima napoletana. Così, ecco Massimo Stanzione ritrarre una Giovane donna con un gallo (San Francisco, Museum of Fine Arts): bel volto chiaro, rivestita di un costume sgargiante e decoratissimo con pizzi e nastri, e quella gallina in mano che la ragazza sta forse per andare a vendere. Una posa naturalmente “teatrale”; nobile e libera. Ricorda quella dei pastori e degli artigiani che nei presepi grandiosi – veri spettacoli – affollano la natività del Cristo, immersi in una scenografia ricca di immaginazione. In essa pullula la stessa vita di oggi, il medesimo gusto per lo stupore e l’identica voglia di essere e rimanere al mondo.
Ha ragione dunque il curatore delle rassegne, Nicola Spinosa, a scrivere che «il barocco è metafora, o meglio, condizione permanente, nel bene e nel male, di Napoli». E ad augurarsi che riandare a quella stagione, durante la quale «il finito si confondeva con l’infinito» serva alla città «per un domani migliore e non troppo lontano». Chissà, ampio e luminoso come la Veduta di Posillipo del Vanvitelli, uno dei tanti stranieri innamorati della città, dove il golfo e il cielo si sembrano toccare.
Ritorno al Barocco
Ritorno al Barocco. Da Caravaggio a Vanvitelli (cataloghi Arte’m). Fino all’11/4.
Le sei mostre si svolgono a Museo di Capodimonte, Castel Sant’Elmo, Certosa e Museo di san Martino, Museo Duca di Martina, Museo Pignatelli, Palazzo Reale.
L’esposizione, che coinvolge l’intera città e la regione con 51 itinerari nei luoghi barocchi, presenta 500 opere: sculture, ceramiche, dipinti, arredi, gioielli, tessuti, provenienti da collezioni italiane e straniere.
Informazioni: www.ritornoalbarocco.it