Loro 2

Con il secondo capitolo, in sala il 10 maggio , si completa Loro, il film che Paolo Sorrentino ha voluto in due atti, con Toni Servillo nei panni di Berlusconi e Elena Sofia Ricci nel ruolo di Veronica Lario. In Loro 2 si racconta un Berlusconi privato, intimo: con la moglie che lo sta lasciando, con i compagni di partito, con l'amico imprenditore Ennio Doris (interpretato da Toni Servillo in un abile sdoppiamento), con il cantante Apicella (Giovanni Esposito), con Mike Bongiorno (Ugo Pagliai)  fino alla decisione definitiva di Veronica di divorziare

«Il miglior modo di essere egoisti è l’altruismo». È una delle frasi dure come pietre, perché affermate da Silvio con disarmante sincerità, nella seconda parte della Berlusconeide tragicomica di Sorrentino. Vi gira però un’aria di amarissimo disincanto. Investe tutti, da Sergio Morra e le sue donnine pronte a tutto (fino al ridicolo balletto con tanto di canzone a Silvio), alla falsa amica Cupa, dall’onorevole Recchia (che non è Bondi, ha affermato il regista, ma resta il dubbio..) a Mike Bongiorno “scaricato”, fino alla cortigianeria di lillipuziani intorno al vero «dio di sé stesso», ovvero Silvio. Grottesco nella maschera facciale rifatta, nel suo credersi  seduttivo (la cinica telefonata ad una signora per “piazzare” un appartamento) ma ancora vegeto, decisionista nel proiettare in un cono d’ombra sempre più buio chi non gli serve e nel corrompere sei onorevoli per far cadere (nel 2008) il governo.

Silvio è un cinico innamorato di sé stesso, stupito che le gente non lo ami, mentre fa di tutto per esserlo: vedere la scena trionfante a Napoli, invece che andare a New York… Si erge come un faraone solitario, specchio di una dimensione umana egocentrica, che «si è fatta da sola». «Perché sei stata tanti anni con me?», chiede a Veronica, il suo unico ostacolo, nel drammatico scontro in cui lei gli rivela che vuole divorziare. Non serve che lui le rinfacci i soldi, la carriera. «Perché mi sono innamorata», è la risposta disarmante della donna. L’amore. Il sentimento che Silvio non può capire, preso com’è da sé stesso.

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Nelle sequenze di un Berlusconi privato che si giustifica degli eccessi perché almeno lui si presenta per quello che è – a differenza degli altri imprenditori che fanno di nascosto come lui – Sorrentino piazza un surplus di immagini, situazioni con il consueto barocchismo  compiaciuto che spazia attraverso vari registri. Sino al sillabato frenetico da opera buffa con cui Silvio si presenta, una sorta di imbonitore surreale come il Dulcamara dell’Elisir d’amore di Donizetti o il don Magnifico della Cenerentola rossiniana. Ma se lì c’era il divertissement, qui c’è sotto la buffoneria tragica di una maschera umana che si rivela nella sua profonda amoralità come un modello di vita e di relazioni che ha dettato legge per vent’anni all’Italia, ed ancora resiste.

Sorrentino non giudica,  lascia a noi spettatori  di farci una opinione. Troppo facile. La ragazza, Stella, che al seduttore Silvio rinfaccia i mali della vecchiaia e la sua ridicolaggine, ed ha il coraggio di andarsene, lui non la può capire, perché la verità sola per Silvio è il potere dei soldi, cioè di sé stesso. Sorrentino prova tenerezza per un uomo che non accetta il tempo che scorre e che come un torero non smette di lottare. I sogni di gloria di Silvio, che vuol fare sognare l’Italia e il mondo, crollano come è crollata L’Aquila. L’immagine violenta della città che cade, dei pompieri stanchi e abbattuti sulle macerie, di lui che va a consolare la gente promettendo case (quasi una irrisione al dolore, il cinismo della politica) si fa dramma muto nel Cristo morto calato da una gru a terra (un ricordo di una scena nella Dolce vita felliniana). Finalmente il Sorrentino dei lustrini e delle visioni estetizzanti, delle metafore ambiziose, apre uno spiraglio alla pietà. È il dramma di una Italia fragile nelle case e nelle anime, dispersa nel suo tessuto sociale in nome di un sogno individualistico libero da qualsiasi remora.

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Nella Berlusconeide sorrentiniana lo spazio per la sofferenza della gente è infatti minimo, ridotto solo a questo momento. Il cinema visionario del regista del regista napoletano evade dalle domande troppo serie, osserva, vive di immagini. È il pregio e il limite. Certo, ora Servillo è più crudele del solito, la Ricci si conferma perfetta, il cast è apprezzabile come le risorse tecniche. Eppure, una sforbiciata alla prima parte, avrebbe conferito al film quella unità e linearità che gli manca, togliendogli l’aura di teatro dell’eccesso e supercitazionista che Sorrentino crea.  Lasciandoci con l’amaro in bocca. Perché, anche se lui non vuol dare giudizi, resta un fatto. Nella lotta tra morte e vita, che è forse uno dei sottotesti del lavoro, a vincere è la morte. Di cui Silvio, con la sua ossessione per l’immortalità, è la maschera ambigua. Per tutti, perché “loro” siamo noi.

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