L’ora della verità per l’Europa

I nuovi accordi stipulati dai 26 paesi dell'Unione senza la Gran Bretagna chiedono maggiore condivisione alle nazioni ricche e reali riforme a favore dei cittadini in quelle più in difficoltà
Angela Merkel e Manuel Barroso

Da ogni difficoltà può nascere un bene maggiore, da ogni ferita una benedizione, come direbbe il professor Luigino Bruni: così la drammatica crisi dell’Euro di questi giorni porta gli stati europei a concretizzare quella maggiore unità politica che in momenti meno critici sarebbe stata improponibile anche per i suoi stati più periferici.

 

I nuovi accordi partoriti tra ventisei dei ventisette paesi europei, esclusa la Gran Bretagna, dopo una intera notte di negoziati, sotto stati stesi sotto forma di accordi bilaterali, per superare l’unanimità necessaria per modificare i trattati europei; essi sono stati resi inderogabili dalla tempesta monetaria che si addensava sull’Euro e sono la prima pietra di una vera delega di potere alla Comunità Europea. Delega di potere economico che è anche politico, perché condiziona le decisioni di spesa dei singoli governi, che d’ora in avanti se non si atterranno alla politica scritta nelle loro costituzioni di bilancio statale in pareggio, saranno sanzionati dalla Corte di giustizia europea, senza le scappatoie che in passato hanno permesso proprio a Francia e Germania in occasioni simili di cavarsela solo con una nota di demerito.

 

Finché non si è giunti tutti sull’orlo del baratro, ogni paese ha visto i problemi comuni europei solo dal proprio punto di vista: la Germania. Il paese più efficiente, lo ha fatto  rifiutandosi di garantire i debiti degli stati che aderendo all’Euro avevano aperto il loro mercato. Essi lo avevano fatto nella speranza di essere così indotti a attrezzarsi con una migliore organizzazione statale e produttiva, tenere il passo dei paesi più avanzati.

 

Negli anni però, invece di rendere le loro amministrazioni più efficienti, si sono dilettati in artifici contabili per nascondere i debiti, emettendo titoli di stato a tassi di interesse contenuti, comunque convenienti per le banche tedesche e francesi che li acquistavano in gran quantità, indebitandosi con i risparmiatori europei e mondiali a tassi ancora inferiori.

 

Quando questo idillio è finito per l’attacco all’Euro, effettuato forse sperando di togliere di mezzo l’unica moneta in grado di impedire agli Usa di creare impunemente ricchezza stampando dollari, i paesi come l’Italia hanno capito che la ricreazione era finita, dovevano davvero provvedere ad adeguare l’età della pensione alle aspettative di vita, creare infrastrutture per il bene comune e non per raccogliere consenso, combattere l’evasione fiscale e la corruzione. I paesi più forti, per conto loro, hanno capito che se volevano continuare a crescere, invece di continuare a lucrarvi sopra, dovevano condividere parte dei pesi dei paesi che con i loro consumi avevano permesso loro di prosperare.

 

Non aderendo all’euro, la Gran Bretagna ha in questi anni potuto stampare le sterline necessarie a coprire gli enormi debiti fatti dalle sue banche con i titoli tossici; questo ha provocato una svalutazione della sterlina del trenta per cento, impoverendo di altrettanto gli inglesi anche se agevolando le loro esportazioni. Non volendo che la sterlina continuasse a perdere valore, il primo ministro Cameroon è stato poi obbligato a tagli degli stipendi pubblici, delle spese sociali e a far salire molto le tasse universitarie.

Se avesse aderito ai nuovi accordi europei, avrebbe dovuto accettare le maggiori regole per la finanza che tutti ormai auspicano, ma che finora proprio la Gran Bretagna ha impedito che l’Europa adottasse, perché le istituzioni finanziarie inglesi sono una delle sue maggiori risorse economiche: Tony Blair e Margaret Thatcher per anni erano riusciti a districarsi nelle istituzioni comunitarie condizionandone il funzionamento con la loro cultura economica, a volte positivamente, ottenendo trattamenti di favore: il nuovo premier, forse meno accorto, non ha saputo sottrarsi ad una rottura, che però era probabilmente inevitabile, se si voleva raggiungere una maggiore integrazione europea.

 

All’Europa, che è riuscita a nascere proprio perché per decenni è sottostata alla regola della unanimità delle decisioni, pur patendo così le bizze di governanti anche di paesi periferici, servono le regole comuni non più soggette ad interessi particolari: serve una banca comune in grado di sostenere tutti stampando moneta quando il rischio di inflazione è ridotto anche quando questo significasse portare più vicino alla parità il cambio con il dollaro.

Si pagherebbero di più le materie prime ed i beni importati, ma si potrebbe esportare tutti più facilmente, non solo la prima della classe.

All’Europa serve anche una politica estera comune: col prendere il largo della Gran Bretagna forse in Europa un ministro degli esteri inglese non potrà durare a lungo, e questo permetterà all’Unione di prendere posizioni meno allineate a quelle degli Stati Uniti: non per sentimenti anti americani, ma per dare al mondo il suo contributo originale, che nasce dalle sue potenzialità tecnologiche, economiche e soprattutto culturali. 

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