L’opera da tre soldi. Metafora dell’uomo in declino
Una piccola formazione orchestrale inghiottita in un enorme golfo mistico. I musicisti bruciano al suo interno, per uno strano gioco di rifrazione dovuto alle lampadine alogene che illuminano i leggii. Scale policromatiche di fiati si spandono per l’auditorium in un ritmo sempre più frenetico. Buio.
Napoli, frontone di un vecchio palazzo cadente, immondizia tecnologica tutto intorno. Prende vita, ancora una volta nel nostro Paese, l’opera brechtiana portata in patria nel 1956 da Giorgio Strehler. Considerata il capolavoro assoluto del teatro del Novecento ha sancito il connubio tra Brecht e Weill. Come hanno riportato le cronache dell’epoca, il successo è stato talmente inaspettato che gli attori avevano preso altri impegni, sicuri dell’insuccesso. Invece, questa commistione inedita tra prosa e canzoni, rende la pièce un esempio unico nel suo genere. Questi ingredienti funzionano ancora a distanza di quasi ottantacinque anni dalla prima tedesca.
L’opera da tre soldi è ispirata alla Beggar’s opera, letteralmente L’opera del mendicante, scritta nel Settecento. Ciò che aveva colpito Brecht di quella pièce era l’aspetto legato alla satira socio-politica, mostrando l’impressionante analogia tra lo spietato mondo della malavita e il non meno crudele mondo degli affari. Facendo riferimento ai fatti di cronaca degli ultimi tempi, anche in termini di crisi economica, è impressionante scoprire l’attualità di questo pezzo teatrale.
Luca De Fusco, direttore dello Stabile di Napoli, produttore e regista della nuova versione in tournée in questi giorni, afferma che è più criminale fondare una banca che rapinarla. Quest’aspetto è diventato talmente proverbiale da essere entrato nel linguaggio giornalistico. Un altro aspetto messo in luce dal metteur en scène è la crescita del fenomeno del pietismo, anche e soprattutto grazie all’ausilio del mezzo televisivo.
Se guardiamo al testo, quindi, vediamo come questi fenomeni negativi siano diventati una sorta di cartina al tornasole della società, che prevarica i valori per favorire il profitto, schiacciando i più deboli, come ad esempio i giovani. Eppure queste no men’s land, che spesso lamentano abbandono e incuria da parte dei governanti, sembrano esalare l’ultimo respiro, e invece continuano a farcela, giorno per giorno, cercando di coalizzarsi contro quella monotonia da alcuni tanto decantata.
Tornando allo spettacolo, buona la prova di Massimo Ranieri che negli anni aveva più volte mancato, per un soffio, il sogno d’interpretare Mackie Messer, spodestato prima da Michel Piccoli nella versione francese di Strehler, e successivamente da Scaparro che non era riuscito a portare in porto il progetto. L’attore, con la sua fisicità e le sue doti canore, è uno degli interpreti più poliedrici del nostro panorama artistico. Non da meno è la magistrale Lina Sastri nella parte della prostituta Jenny e Gaia Aprea in quella di Polly. Dal punto di vista musicale il jazz, la musica d’intrattenimento e l’opera lirica si mescolano meravigliosamente tra loro.
L’opera da tre soldi è veramente uno spettacolo d’eccezione, una critica sociale pungente e perennemente attuale. Interessante è rileggere la storia di Mackie, Polly, Jenny e Peachum come un musical contemporaneo, ambientato tra rifiuti tecnologici e basato sul notevole apporto del grande videoartista Fabrizio Plessi, uno tra i più grandi videoartisti italiani.
Le sue scene trovano il loro punto di forza in una serie di monitor con le immagini di Napoli in bianco e nero, a raccontare la città, tanto nello sfacelo del secondo dopoguerra, quanto nella sua evoluzione di metropoli postmoderna. La dimensione atemporale della rappresentazione viene accentuata dai costumi di Giuseppe Crisolini Malatesta, anch’essi giocati sulle mille gradazioni del bianco e del nero, quasi sulla scena si svolgesse un film degli anni Cinquanta. Da vedere.
Da vedere al Teatro Olimpico fino al 19 febbraio