L’Onu procede con l’accusa di genocidio al regime del Myanmar
Un fatto importante, una pietra miliare in favore del cammino verso la verità: l’ok per proseguire con l’inchiesta e le accuse per una possibile incriminazione dei generali del Tatmadaw (il potente e spietato esercito del regime del Myanmar) di fronte alla Corte internazionale di giustizia. Il sogno e la speranza che nel futuro potremmo vedere, al banco degli accusati, coloro che da 60 anni perseguitano il popolo dei Rohingya e tutte le etnie del Myanmar. Si tratta dei militari che sostengono l’attuale dittatore, Min Aung Hlaing.
Il Myanmar detiene il triste primato della più lunga guerra civile dell’umanità, 60 anni, iniziata contro il popolo Karen e poi proseguita con feroce accanimento contro tutti e tutto. Sessant’anni di sangue, stupri, uccisioni, crimini inimmaginabili documentati da volumi e volumi: anche contro i monaci buddhisti, se osano rifiutare le offerte dei militari e marciano con i giovani manifestanti. Per indurre i soldati ad uccidere i monaci, alcuni ufficiali hanno drogato le truppe prima di scatenarle contro i monaci che manifestavano, nell’agosto e settembre 2007.
Sessant’anni di un sistema di terrore che la casta dei militari, da generazioni, porta avanti. Un sistema di terrore che ha permesso ai militari di arricchirsi al di là di ogni immaginazione. Un famoso esempio, che spesso riporto, è il matrimonio di Thandar Shwe, primogenita dell’allora dittatore di turno del Myanmar, il generale Than Shwe, con il maggiore Zw Phyo Win, nel 2006: tra i regali ci furono bracciali di diamanti, una villa da 50 milioni di dollari e 2 kg d’oro. Senza contare il ricevimento offerto per l’occasione, con fiumi di champagne francese e torte a 5 piani. Questo è lo stile di vita dei generali del Myanmar che da 60 anni sfuggono alla giustizia internazionale.
La giustizia ha sempre un lungo cammino ma l’importante è iniziare questo percorso, per la salvaguardia di tutti noi, non solo delle popolazioni di un Paese: i tiranni sono una minaccia per l’intera famiglia umana. E senza giustizia non ci può essere pace: il milione di Rohingya ammassati a Cox Bazar, provincia di Kulapatong in Bangladesh, esigono giustizia. Ancora oggi, dopo la grande fuga dell’agosto 2017, non possono rientrare nella loro terra per paura delle rappresaglie. Quelli accampati nello stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh, sanno che non è un posto sicuro per loro, ma non hanno alternative.
Gli 800 mila e più fuggiti nel 2017 rimangono nel poverissimo Bangladesh, creando gravi problemi alla popolazione locale, che vede in loro dei nemici più che degli sfortunati in cerca di una casa e di un futuro. Le Nazioni Unite e varie agenzie internazionali aiutano il Bangladesh in questa assistenza ai profughi, che non hanno, al momento, alcuna prospettiva, almeno fino a quando in Myanmar i militari e la frangia collaborazionista dei monaci respingeranno il ritorno dei “bengalesi”, come vengono intenzionalmente chiamati i Rohingya, quasi fossero stranieri invasori invece che cittadini del Myanmar.
Oggi la situazione in Myanmar è quella di un paese in guerra: centinaia di migliaia di persone sfollate internamente, in fuga dalle loro case: migliaia quelli che tentano ogni giorno di entrare in Thailandia, in cerca di una speranza di vita. Ed il Tatmadaw che usa elicotteri da combattimento di fabbricazione russa contro i villaggi che oppongono resistenza alle angherie e ai soprusi.
I piccoli ma agguerriti eserciti delle varie etnie, Kachin, Karen, Arakan, cercano di combattere con le armi che hanno: non ci sono missili Javelin (come quelli forniti agli ucraini) per aiutare chi combatte il Tatmadaw, perchè nessuno aiuta i perseguitati in questa guerra impossibile da vincere. Ed è anche difficile da spiegare: certo è che l’Occidente ha paura di aprire un altro scenario di guerra, dopo l’invasione dell’Ucraina. E poi il Myanmar, con l’India così vicina ad ovest e la Cina a nord, cosa potrebbe offrire all’Occidente se non un altro Vietnam? Questi sono i calcoli politici, ma il fatto certo, al di là dell geopolitica, è che la gente continua a morire.
Telefonando ad un amico sacerdote di Mae Sot, al confine fra Thailandia e Myanmar, lui mi diceva al telefono: “George, le senti in sottofondo le cannonate mentre parliamo? Questi sono gli obici che l’esercito del Myanmar usa contro le forze Karen. Se non riescono con quelli, allora intervengono i Mig…”. Ero esterrefatto. Gli domando: “E i civili?”. Risposta: “Sono ammassati lungo il confine, sulle rive del fiume che fa da linea di demarcazione, ma non possono passare dall’altra parte… e sperano che le bombe non cadano proprio su di loro”.
Questa è la situazione al momento, ed anche molto peggio. Perchè il dolore, la disperazione non possono mai essere veramente descritti. Resta il silenzio, la preghiera per chi ha fede, per questa gente. E l’impegno ad aiutarli, giorno dopo giorno, per amore verso chi è uomo, donna, bambino, anziano. Persone che stanno morendo per le bombe, la malaria, il dengue, oppure di stenti. A pochi chilometri da dove sto scrivendo.
__